Lectio
divina su Mt 25,31-46


 
Invocare
O Padre, che hai posto il tuo
Figlio come unico re e pastore di tutti gli uomini, per costruire nelle
tormentate vicende della storia il tuo regno d’amore, alimenta in noi la
certezza di fede, che un giorno, annientato anche l’ultimo nemico, la morte,
egli ti consegnerà l’opera della sua redenzione, perché tu sia tutto in tutti.
Egli è Dio, e vive e regna con te
nell’unità dello Spirito Santo per tutti i secoli dei secoli. Amen.
 
In ascolto della Parola (Leggere)
31 Quando il Figlio dell’uomo verrà
nella sua gloria, e tutti gli angeli con lui, siederà sul trono della sua
gloria. 32 Davanti a lui verranno radunati tutti i popoli. Egli
separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dalle capre, 33
e porrà le pecore alla sua destra e le capre alla sinistra. 34
Allora il re dirà a quelli che saranno alla sua destra: «Venite, benedetti del
Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione
del mondo, 35 perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho
avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, 36
nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete
venuti a trovarmi». 37 Allora i giusti gli risponderanno: «Signore,
quando ti abbiamo visto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, o assetato e ti
abbiamo dato da bere? 38 Quando mai ti abbiamo visto straniero e ti
abbiamo accolto, o nudo e ti abbiamo vestito? 39 Quando mai ti
abbiamo visto malato o in carcere e siamo venuti a visitarti?». 40 E
il re risponderà loro: «In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a
uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me». 41
Poi dirà anche a quelli che saranno alla sinistra: «Via, lontano da me,
maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli, 42
perché ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e non mi
avete dato da bere, 43 ero straniero e non mi avete accolto, nudo e
non mi avete vestito, malato e in carcere e non mi avete visitato». 44
Anch’essi allora risponderanno: «Signore, quando ti abbiamo visto affamato o
assetato o straniero o nudo o malato o in carcere, e non ti abbiamo servito?». 45
Allora egli risponderà loro: «In verità io vi dico: tutto quello che non avete
fatto a uno solo di questi più piccoli, non l’avete fatto a me». 46
E se ne andranno: questi al supplizio eterno, i giusti invece alla vita
eterna».
 
In silenzio leggi e rileggi il testo biblico finché
penetri in te e vi metta delle salde radici.
 
Dentro
il Testo

Il nostro testo è la conclusione
di un lungo discorso escatologico (Mt 24,1-25,46) pronunciato da Gesù sul monte
degli Ulivi ai suoi discepoli in disparte (Mt 24,3). Il discorso parte
dall’annunzio della distruzione di Gerusalemme per parlare della fine del
mondo. I due eventi si confondono come se fossero uno solo.
Questa parte del discorso finisce
con la venuta del Figlio dell’uomo con grande potenza e gloria. Egli manderà i
suoi angeli a radunare tutti i suoi eletti (Mt 24,30-31). A questo punto il flusso
cronologico dei fatti annunciati viene interrotto con l’inserzione di alcune
parabole sulla necessità di vegliare per non essere sorpresi alla venuta del
Figlio dell’uomo (Mt 24,24-25,30).
Il discorso escatologico trova il
suo culmine letterario e teologico nel nostro testo che, riallacciandosi a Mt
24,30-31, torna a parlare della venuta del Figlio dell’uomo accompagnato dagli
angeli. Il raduno degli eletti prende qui la forma di un giudizio finale.
Questo discorso escatologico
chiude il ministero di Gesù, cioè l’attività pubblica in cui Gesù ha predicato
e operato segni, miracoli. Dopo c’è il racconto della passione.
Fondamentalmente, il significato di questo discorso è un’esortazione a
sintonizzare la nostra vita sul futuro che ci viene svelato davanti; il Signore
ci dice quale sia il futuro della storia e ce lo dice perché impariamo a vivere
il presente orientandolo verso quel futuro, perché ci possiamo preparare
vegliando, rimanendo svegli, senza lasciarci addormentare o anestetizzare da
tutte le diverse esperienze della vita quotidiana. Quindi, al centro di quel
discorso c’è l’invito a vegliare.
 
Riflettere
sulla Parola
(Meditare)
v.
31: Quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria, e tutti gli angeli con
lui, siederà sul trono della sua gloria.
Il brano comincia con la parola “Quando”.
Questa era la domanda dei discepoli: “Quando è che verrai nella tua gloria?”
(cfr. Mt 24,3). Troveremo questo e simili avverbi o congiunzioni nei capitoli
seguenti.
Sorge una domanda sul quando
finale, quando avviene? Quale ora? L’ora di Gesù è spiegato molto bene dall’evangelista
Giovanni. Matteo ci dice che l’ora è in questo preciso momento in cui lo
riconosciamo: quando il Signore verrà nella sua gloria e vedremo che l’evento
glorioso sarà proprio sulla croce: lì manifesterà la gloria di Dio, la gloria
di un amore infinito, la gloria di chi sa portare il male del mondo senza
restituirlo, la gloria di chi vince il male col bene, lì rivela la gloria e
sarà riconosciuto come Dio.
Il versetto riporta l’espressione
semitica “Figlio dell’uomo”, che significa semplicemente un essere umano (cfr.
il parallelismo tra “uomo” e “figlio dell’uomo” in Sal
8,5). La troviamo frequentemente nel libro di Ezechiele dove Dio indirizza il
profeta come “figlio dell’uomo” (Ez 2,1.3.6.8; 3,1.2.4.10.16) per
risaltare la distanza tra Dio che è trascendente e il profeta che è un semplice
uomo. Anche in Daniele 7,13-14 l’espressione acquista un significato
particolare. Il profeta vede “apparire sulle nubi del cielo uno simile ad
un figlio di uomo” che riceve da Dio “potere, gloria e regno”.
Si tratta pur sempre di un essere umano, che però viene introdotto nella sfera
di Dio. Il Testo è stato interpretato sia in senso personale che collettivo, ma
sempre in senso messianico. Quindi, sia che si tratti di una sola persona sia
che si tratti del Popolo di Dio nel suo insieme, il Figlio dell’uomo è il
Messia che inaugura il Regno di Dio, un regno eterno e universale.
Nel Nuovo Testamento il Figlio
dell’uomo è Gesù Cristo, di cui viene richiamata la figura umana umile e
sofferente, perché il termine “Figlio dell’uomo” richiama questa debolezza
della condizione umana di Gesù. Ma quel Gesù che è passato in mezzo a noi
conoscendo la sofferenza, ora è presentato davanti a noi come giudice, lui è il
giudice della storia. Dunque, il giudizio ha una misura umana, è misurato su un
uomo, e su quell’uomo concreto che è Gesù. L’uomo autentico, l’uomo compiuto è
Lui, per questo l’umanità è misurata a partire da Lui. Gesù viene presentato
come un re e qualche versetto dopo verrà proprio detto che è un Re che si
insedia su quel posto di potere che gli spetta. Nel vangelo di Matteo tutto
questo Gesù lo dice quando egli parla della sua passione (Mt
17,12.22;20,18.28), della sua resurrezione come evento escatologico (Mt
17,19;26,64) e del suo ritorno glorioso (Mt 24,30; 25,31).
vv.
32-33: Davanti a lui verranno radunati tutti i popoli.
Con questa espressione si vuole
indicare che colui che raduna è Dio; la fine della storia, intesa come una
ricomposizione dell’umanità frammentata, è dunque dovuta alla sua azione
potente, perché la storia non è proiettata verso il nulla o il caos, ma è nelle
mani di Dio che raduna alla fine il suo gregge disperso. In questa espressione
riecheggiano passi significativi dell’Antico Testamento come quello di Gioele: “Riunirò
tutte le nazioni … e verrò a giudizio con loro”
(Gl 4,2) oppure di Isaia: “Io
verrò a radunare tutti i popoli e tutte le lingue; essi verranno e vedranno la
mia gloria”
(Is 66,18).
Con la parola “genti”, in genere,
la tradizione biblica intende i pagani, i “goym”; questo è confermato da
Matteo, infatti è alle genti che deve essere annunziato il Vangelo prima che
venga la fine: “questo vangelo del regno sarà annunciato in tutta la terra
abitata a testimonianza per tutte le genti; e allora sarà la fine”
(Mt
24,14; 26,13).
Alla fine della sua narrazione
Matteo trasmette l’invito del Risorto ad “ammaestrare tutte le genti” (Mt
28,19). Si può dire allora che la locuzione tutte le genti va riferita
anzitutto ai popoli pagani, che sono stati messi a confronto con il messaggio
di Gesù dall’annuncio degli apostoli, dei discepoli e dei credenti in genere.
Se questo è vero, Mt 25,31-46 vuole presentarci il giudizio di coloro ai quali
sono inviati gli apostoli.
Stando al testo di Matteo,
l’Israele biblico sembra già essere stato giudicato: “perciò io vi dico: vi
sarà tolto il regno di Dio e sarà dato a un altro popolo che lo farà
fruttificare”
(Mt 21,43).
Anche i cristiani saranno
giudicati nell’ultimo giorno, ma non sembra siano compresi in questo brano; infatti,
sempre all’interno del discorso escatologico, ma immediatamente prima del
giudizio delle genti, i credenti in Cristo saranno misurati in base alla
vigilanza, alla docilità nel compiere la volontà del Padre celeste, alla messa
a frutto dei doni di Dio (cfr. Mt 24,36-25,31).
Egli
separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dalle capre, e
porrà le pecore alla sua destra e le capre alla sinistra.
Questo versetto e il seguente
sono un frammento di genere parabolico, che però non è sufficiente a far
ritenere tutto il brano una parabola. Al Figlio dell’uomo è stata già
riconosciuta la funzione regale, con il lessico del trono, della gloria, del
giudizio, al v. 34 gli si attribuirà esplicitamente il titolo di Re; in questo
versetto invece viene presentato come “pastore”.
I due titoli di pastore e di re
non sono in conflitto, descrivono invece la cura, la premura e la
responsabilità di colui che ha alla fine il ruolo di giudice della storia. La
separazione delle pecore (nome femminile) dai capri (nome maschile) non vuole
indicare una giustizia che distingue i maschi dalle femmine, si rifà piuttosto
all’uso dei pastori palestinesi che alla sera separano le due componenti del
gregge, perché i secondi sono più sensibili al freddo rispetto alle pecore che
meglio resistono al clima rigido. Stando al paragone la separazione sembra
guidata dall’attenzione e dalla cura e non dall’atteggiamento condannatorio; se
poi pensiamo che sullo sfondo del brano abbiamo Ez 34, questo tratto di premura
e responsabilità viene ulteriormente accentuato.
v.
34: Allora il re dirà a quelli che saranno alla sua destra
Il Signore è il Re. Il Re che si
identifica con gli ultimi, Egli è il Re dell’universo e dirà: “Venite”, la
salvezza è venire presso di Lui, Lui è il Figlio, tutto è stato creato nel
Figlio perché tutti siamo figli e nessuno è predestinato alla perdizione.
Venite,
benedetti del Padre mio
Matteo ama molto la locuzione
Padre mio, la usa infatti 16 volte per esprimere la relazione unica del Figlio
col Padre; in questo testo fa comprendere che dalla sua relazione unica col
Figlio scaturisce la benedizione di Dio verso gli uomini, questa sovrabbondanza
di amore che si riversa sugli uomini che sono così benedetti, cioè, amati,
gratificati di ogni benevolenza divina.
ricevete
in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo
È la presentazione dell’entrata
in possesso del bene immenso del regno, possesso che non nasce da un diritto,
ma da una gratuità che vive e cresce nella relazione Padre-figli. Quindi il
dono non scaturisce dai meriti, ma dalla gratuità della paternità divina e
dall’accoglienza da parte degli uomini del Figlio: è Lui che conduce al “Padre”
e quindi alla relazione filiale che dona benevolenza e beatitudine.
L’amore del Padre non è
estemporaneo, né emotivo, ma innestato nella sua identità generativa e
creatrice; per questo è un amore nei riguardi di noi figli previdente e pensato
da sempre. La “riserva” ci ricorda una cosa preziosa da gustare nei momenti
particolari, e qui non si tratta di vini o cibi speciali, ma del dono della
familiarità divina.
vv.
35-36: perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi
avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito,
malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi.
Questa è la motivazione dell’ingresso
nel Regno e richiama le parole di Gesù quando disse: “Beati i poveri perché
di essi è il Regno dei Cieli”
(Mt 5,3) e poi specifica le varie povertà, la
fame, la sete, etc.
La ragione dell’essere benedetti
con l’eredità, cioè col divenire familiari di Dio, è aver dato da mangiare a
chi ha fame, da bere a chi ha sete, ospitato i forestieri, rivestiti i nudi,
visitato gli ammalati ed essere andati a trovare i carcerati. Queste opere di misericordia,
che chiamiamo “corporali”, motivano il premio di coloro che le compiono o in
caso contrario la condanna.
Questa motivazione sembra
richiamare anche la quinta beatitudine: “beati i misericordiosi perché
troveranno misericordia”
(Mt 5,7); ereditare il regno è infatti frutto
della gratuità di Dio, in altri termini della sua misericordia, ma non può
trovare misericordia chi non ha misericordia (cfr. Mt 18,23-35). I bisogni
fondamentali del mangiare, del bere, della sanità e del decoro esterno sono
particolarmente a rischio nelle categorie degli stranieri e dei carcerati, per
i quali l’azione di misericordia manifesta un cuore divino. Significativo che
Gesù nella sinagoga di Nazareth ricorda come Dio stesso sia coinvolto
nell’amore verso questi bisognosi; la prigionia e le necessità dalla quali è
venuto a liberare Cristo (Lc 4,18-19) racchiudono tutte le dimensioni
dell’uomo, verso le quali veramente da parte di Dio si opera una “gheulà”, il
riscatto, la riacquisizione della dignità e della proprietà; positivamente
l’uomo diventa oggetto della “eudokia” di Dio, della sua benevolenza, della sua
misericordia.
vv.
37-40: Allora i giusti gli risponderanno: «Signore, quando ti abbiamo visto
affamato e ti abbiamo dato da mangiare, o assetato e ti abbiamo dato da bere? Quando
mai ti abbiamo visto straniero e ti abbiamo accolto, o nudo e ti abbiamo
vestito? Quando mai ti abbiamo visto malato o in carcere e siamo venuti a
visitarti?». E il re risponderà loro: «In verità io vi dico: tutto quello che
avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a
me».
Quando le genti, per tre volte,
interrogano il re-pastore-giudice per comprendere la valutazione positiva o,
rispettivamente, negativa che hanno ricevuto, egli risponde affermando che questi
bisognosi sono “i miei fratelli più piccoli” con i quali Gesù si identifica: “l’avete
(o non l’avete) fatto a me”.
Si pone un non facile problema
d’interpretazione su questi “fratelli più piccoli”. Le ipotesi sono diverse, ma
non necessariamente contraddittorie; fra di esse due in particolare meritano
attenzione: la prima più legata allo stile di Matteo, l’altra ad una visione
teologica più generale. Per la prima interpretazione “i fratelli più piccoli”
sono i discepoli e quindi il criterio del giudizio è l’aver accolto o respinto
il discepolo e il suo messaggio. A sostegno di questa ipotesi si fa notare che
alla fine del discorso missionario (Mt 10,42) si afferma: “E chi avrà dato
anche un solo bicchiere di acqua fresca a uno di questi piccoli (mikroi) perché
è mio discepolo, in verità vi dico non perderà la sua ricompensa”, con la
motivazione appena espressa: “chi accoglie voi accoglie me” (Mt 10,40);
anche l’invito di Gesù rivolto ai discepoli affinché diventino piccoli va sulla
stessa linea di identificazione (cfr. Mt 18,2-5). Inoltre, Gesù non solo si
identifica con i suoi discepoli che qualifica come “piccoli”, ma li chiama pure
fratelli; infatti, in Mt 12,49-50 si legge: “stendendo la mano verso i suoi
discepoli disse: «Ecco mia madre ed ecco i miei fratelli; perché chiunque fa la
volontà del Padre mio che è nei cieli, questi è per me fratello, sorella e
madre»”
. Seguendo questa prima interpretazione, dunque, le genti verranno
giudicate in base al loro atteggiamento nei confronti dei cristiani e
l’accoglienza dovrebbe essersi manifestata mediante gesti di carità, sulla base
del concreto bisogno del discepolo o del credente inviato ad annunciare Cristo.
In tal senso significativo è il rapporto di Paolo con i cristiani di Filippi,
come anche l’espressione dello stesso Apostolo che afferma che i Galati si
sarebbero cavati gli occhi per Paolo, se ne avesse avuto bisogno (cfr Gal
4,15).
Stando ad una seconda
interpretazione i “fratelli più piccoli” sarebbero i bisognosi di cibo,
di acqua, di cure, di dignità, di attenzione, che per scelte sbagliate
(carcerati) o per la loro razza (stranieri) sono rifiutati come estranei dal
contesto sociale e culturale in cui si trovano a vivere; sono quindi nella
povertà concreta e senza l’intervento di altri sono senza futuro e speranza.
Questo secondo significato
sarebbe motivato dal carattere universale del giudizio, che non può limitarsi
ad una prospettiva ristretta (i soli credenti), ma intende abbracciare tutti
gli uomini, anche se la motivazione non si fonda certo su una base sociologica,
ma cristologia: “l’avete fatto a me”. Questa affermazione esclude la semplice
interpretazione filantropica per riportarla a un contesto teologico: Gesù si è
fatto solidale con i poveri; lui stesso è diventato povero per compiere la
volontà del Padre (cfr. Fil 2,5-11). Le opere di misericordia, per Gesù, sono
la prova di una carità radicale e universale ed anche i cristiani sono quindi
compresi in questo giudizio: nessuno può innalzarsi sopra il fratello, né i
cristiani sugli ebrei, né gli ebrei sui pagani, né chi svolge un ministero
autorevole sul semplice credente (Rm 2,9-16.25-27; 2Cor 5,10s; Rm 14,10s; 1Cor
3,11-15; 1Cor 9,27; Lc 10,30-37).
Matteo ripete in forma diversa la
regola d’oro, proclamata nel discorso della montagna (“Tutto quanto volete che
gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro” Mt 7,12) e nelle dispute
(Mt 22,34-40); la comunità cristiana mostra di aver fatto proprio il linguaggio
di Gesù (1Gv 4,21; Gc 1,27; 2,15). Anche l’AT conosceva le prescrizioni di
misericordia (cfr. Is 58,7; Prv 19,17), ma Gesù evidenzia la necessità di
passare dal riconoscimento della validità di una norma astratta alla sua
attuazione nell’amore.
vv.
41-43: Poi dirà anche a quelli che saranno alla sinistra: «Via, lontano da me,
maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli perché
ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e non mi avete
dato da bere, ero straniero e non mi avete accolto, nudo e non mi avete
vestito, malato e in carcere e non mi avete visitato».
La vicinanza e l’allontanamento
dal Figlio dell’uomo sono l’immagine della beatitudine o della punizione. E
sono interpellati con una parola durissima: “Allontanatevi da me, maledetti
dal fuoco eterno”
.
Perché questa tremenda
espressione “maledetti”? La maledizione è l’esperienza della morte, è il
dominio della morte sulla vita dell’uomo. La prima volta che nella Bibbia si
esprime una maledizione rivolta all’uomo è nel caso di Caino: l’uomo è
maledetto, proprio perché ha ucciso. Ed è questa la maledizione, non è altro
che questa. Non c’è da aggiungere una maledizione che venga da lontano. La
maledizione sta dentro al comportamento dell’uomo che chiama la morte contro suo
fratello, ma che in realtà la prende sopra di sé; ha fatto un patto con la
morte.
Non si dice che il “fuoco eterno”
sia stato preparato prima della creazione del mondo, come si diceva invece del
Regno. Il Regno è stato preparato da prima della creazione del mondo, mentre
del fuoco eterno non si dice. Del “Regno” si dice: “è stato preparato per voi”.
Del “fuoco eterno” si dice: “è stato preparato per il diavolo”. È
significativo: quello che “Dio ha preparato per voi” è solo il Regno, è solo la
Beatitudine. Dio ha creato l’uomo per la vita. Chiaramente il male va bruciato:
tutto ciò che non è amore non può esistere, verrà bruciato dal fuoco
dell’amore.
vv.
44-45: Anch’essi allora risponderanno: «Signore, quando ti abbiamo visto
affamato o assetato o straniero o nudo o malato o in carcere, e non ti abbiamo
servito?».
Allora egli risponderà loro: «In verità io
vi dico: tutto quello che non avete fatto a uno solo di questi più piccoli, non
l’avete fatto a me».
Ritorna il “quando”; ritorna
ancora affamato assetato, nudo, forestiero, ammalato, in carcere…, quasi a
lasciarci bene impressa questa situazione di povertà materiale, di povertà
morale, di povertà assoluta dove si perde anche l’onorabilità… tutto, carcere compreso.
Allora ci deve essere un criterio
di valutazione per farci vedere che tutto dipende da quel che facciamo adesso.
“Gesù si identifica totalmente con i fratelli e le sorelle che ci stanno
accanto, chiede di indirizzare a loro le attenzioni. Dio che si identifica con
gli sconfitti della Storia, con gli scarti di un mondo che ha fatto dell’efficienza
e del profitto un idolo” (Paolo Curtaz).
Gesù interroga su queste opere
buone del Vangelo. Interroga sullo stesso sguardo di Dio, su quello sguardo che
ti estrae dal potere della morte. E c’è di più. Dice: “tutto quello che
avete fatto (cioè le opere buone) a uno solo di questi miei fratelli più
piccoli, l’avete fatto a me”.
v.
46: E se ne andranno: questi al supplizio eterno, i giusti invece alla vita
eterna.
Il versetto chiude il discorso
sul giudizio finale: sia per i giusti che per i cattivi (o maledetti). Sembra che
l’evangelista Matteo riprenda le due vie che troviamo all’inizio del libro dei
Salmi: «Beato l’uomo che non entra nel consiglio dei malvagi, non resta nella
via dei peccatori…ma nella legge del Signore trova la sua gioia» (Sal 1,1-2).
Due vie: destra e sinistra, quella della morte e quella della vita eterna.
Per tutti è chiaro che ci sta un
giudizio e qui vuol dire: separazione, divisione; e la conclusione del brano è
proprio questa. Per fortuna l’ultima parola, l’ultima immagine, è quella dei
giusti e della vita (cfr. Sal 1,5-6).
La Beatitudine è preparata da Dio
per noi. La punizione è costruita da noi per noi stessi, non da Dio, non l’ha
preparata lui; è una realtà di allontanamento della nostra libertà da Dio.
 
Ci fermiamo in
silenzio per accogliere la Parola nella vita. Lasciamo che anche il Silenzio
sia dono perché l’incontro con la Parola sia largamente ricompensato
 
La
Parola illumina la vita e la interpella

Apriamo i nostri cuori a saperlo
accogliere nell’oggi nella nostra vita per essere da lui accolti nell’eternità
del suo regno.
Con che cosa mi identifico: con
il bene o con il male?
Chi sono i fratelli più piccoli
di Gesù che io incontro? Sono capace di vedere, amare e servire Gesù in loro?
Quale via scelgo: quella della
morte o quella della vita eterna?
 
Rispondi
a Dio con le sue stesse parole
(Pregare)
Il Signore è il mio pastore:
non manco di nulla.
Su pascoli erbosi mi fa riposare.
Ad acque tranquille mi conduce.
 
Rinfranca l’anima mia,
mi guida per il giusto cammino
a motivo del suo nome.
 
Davanti a me tu prepari una mensa
sotto gli occhi dei miei nemici.
Ungi di olio il mio capo;
il mio calice trabocca.
 
Sì, bontà e fedeltà mi saranno
compagne
tutti i giorni della mia vita,
abiterò ancora nella casa del Signore
per lunghi giorni. (Sal 22)
 
L’incontro
con l’infinito di Dio è impegno concreto nella quotidianità
(Contemplare-agire)
Portare la mente nel cuore a
immedesimarsi nel mistero dell’incarnazione come solidarietà con i poveri, gli
ultimi, gli affamati, … come solidarietà con ciascuno di noi nella propria
singolarità. “Armiamoci di amore e di umiltà e iniziamo a sgrezzare la nostra
anima” (da Imitazione di Cristo).

Write a Reply or Comment

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.