Lectio
divina su Gv 1,1-18


Invocare
Padre di eterna gloria, che
nel tuo unico Figlio ci hai scelti e amati prima della creazione del mondo e in
lui, sapienza incarnata, sei venuto a piantare in mezzo a noi la tua tenda,
illuminaci con il tuo Spirito, perché accogliendo il mistero del tuo amore,
pregustiamo la gioia che ci attende, come figli ed eredi del regno. 
Per Cristo nostro unico
Signore. Amen.
 
In ascolto della Parola (Leggere)
1 In
principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio. 2
Egli era, in principio, presso Dio: 3 tutto è stato fatto per mezzo
di lui e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste. 4
In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini; 5 la luce
splende nelle tenebre e le tenebre non l’hanno vinta. 6 Venne un
uomo mandato da Dio: il suo nome era Giovanni. 7 Egli venne come
testimone per dare testimonianza alla luce, perché tutti credessero per mezzo
di lui. 8 Non era lui la luce, ma doveva dare testimonianza alla
luce. 9 Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni
uomo. 10 Era nel mondo e il mondo è stato fatto per mezzo di lui;
eppure il mondo non lo ha riconosciuto. 11 Venne fra i suoi, e i
suoi non lo hanno accolto.
12 A quanti
però lo hanno accolto ha dato potere di diventare figli di Dio: a quelli che
credono nel suo nome, 13 i quali, non da sangue né da volere di
carne né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati. 14 E il
Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi abbiamo
contemplato la sua gloria, gloria come del Figlio unigenito che viene dal
Padre, pieno di grazia e di verità. 15 Giovanni gli dà testimonianza
e proclama: «Era di lui che io dissi: Colui che viene dopo di me è avanti a me,
perché era prima di me». 16 Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo
ricevuto: grazia su grazia. 17 Perché la Legge fu data per
mezzo di Mosè, la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo. 18
Dio, nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del
Padre, è lui che lo ha rivelato.
 
In silenzio leggi e rileggi il testo biblico finché penetri in te e vi
metta delle salde radici.
 
Dentro
il Testo

Il Quarto Vangelo si apre
con questo straordinario brano poetico, definito un inno alla Parola di Dio che
si rivela e opera nel mondo. È una sintesi meditativa di tutto il mistero del
natale, perché il bambino di Betlemme è la rivelazione di Dio, la verità di Dio
e dell’uomo, e riflettendo su questo evento siamo in grado di capire chi è
colui che nato e chi siamo noi.
Il prologo di Giovanni è
diverso dagli altri prologhi del N.T. (Lc 1,1-4; Mc 1,1-13; At 1,1-2) per il
suo carattere innico-teologico. Si pensa che il redattore del quarto Vangelo
abbia utilizzato un preesistente inno cristologico al Lògos incarnato. Proprie
dell’Evangelista sarebbero le aggiunte. Questi adattamenti appaiono evidenti
nei vv. 6-8 e 15, che preannunciano il ruolo storico-teologico di Giovanni
Battista, e nei vv. 12c-13, che sviluppano con terminologia tipica del
redattore il v. 12ab.
Il prologo, con un
movimento parabolico, descrive la missione teologica del Lògos incarnato. Una
sintesi di questo movimento di pensiero possiamo trovarlo in Gv 16,28: “Sono
uscito dal Padre e sono venuto nel mondo; ora lascio il mondo e vado al Padre”;
e ancora prima in Is 55,10-11.
I primi tredici versetti,
che costituiscono la prima parte dell’inno, ci presentano il Verbo dalla sua
origine: siamo nell’ambito della relazione tra le Persone Divine. La Parola di
Dio, ad un certo momento, entra in contatto col mondo, con l’umanità, e cioè
con noi, incarnandosi. Tale evento viene cantato in una irruzione di gioia al
versetto 14, in cui comincia la seconda parte del Prologo (vv. 14-18). Tuttavia
questo dono di Dio, totalmente gratuito, molti non lo vedono o lo rifiutano. Ci
sono però anche coloro che se ne accorgono e lo accettano. 

Per mezzo
dell’accoglienza del Verbo è possibile diventare figli di Dio: la «buona
novella» della figliolanza divina si trova proprio al centro dell’inno (vv.
12-13).

Riflettere
sulla Parola
(Meditare)
v. 1: In principio era il Verbo, il Verbo
era presso Dio e il Verbo era Dio. 
“In principio” (en archè),
così inizia il Vangelo di Giovanni, riconducendoci all’AT dove i temi di
creazione, di luce e tenebre sono ripresi dalla Genesi (1,1). Questo non è,
come nella Genesi, il principio della creazione, perché la creazione viene nel
v. 3. Il “principio” si riferisce piuttosto al periodo prima della creazione ed
è una designazione, più qualitativa che temporale della sfera di Dio.
Nelle parole “era il
Verbo”, troviamo l’affermazione di un’esistenza che precede questo inizio: fin
da questo principio «esisteva» il Verbo. Parlando di preesistenza, san Tommaso
spiega nella Summa Teologica che si vuole esprimere metaforicamente la verità
che il Verbo è Dio. L’autore del quarto Vangelo sembra collegarsi a entrambe le
tradizioni bibliche: Cristo è la Parola definitiva e la manifestazione perfetta
della Sapienza. La definizione di Verbo per la persona di Gesù è specifica
degli scritti giovannei che la contengono sia in forma assoluta (Gv 1, 1.14)
sia con delle specificazioni (Verbo della vita in 1Gv, 1, 1 e Verbo di Dio in
Ap 19,13). Giovanni riformula l’identità del Verbo alla luce di categorie
veterotestamentarie.
«Verbo»: è la «Parola»,
cioè il mezzo attraverso il quale ci si esprime. Nell’ambiente filosofico
greco, il termine indica la «parola che porta un senso», che lo svela
pienamente. Nell’ambiente giudaico, la parola «dabar» rivela l’essenza stessa
di Dio. 
La preposizione greca pròs esprime
l’idea di innanzi, presso, in relazione a e viene usata per indicare
l’esistenza del Logos in relazione a Dio. Si può intendere: Era in compagnia di
Dio (dando a pròs un senso statico); oppure: Era verso Dio, cioè in relazione
con Dio (in questo caso si conserva a pròs il suo senso di moto). La TOB fa uso
di questa seconda traduzione.
Nella formulazione
originale “pròs tòn thèon” l’articolo (tòn) specifica che si tratta del Padre.
Il Verbo partecipa della sua vita come persona distinta orientata a lui.
In queste pochissime parole
Giovanni descrive un accenno al mistero della relazione Padre-Figlio,
nell’unicità di Dio. Theòs én o’ logos: l’uso di theòs, senza
articolo, esprime la partecipazione alla natura divina. Il Logos possiede la
natura divina pur non essendo il solo ad averla.
v. 2: Egli era, in principio, presso Dio. 
Con la ripresa
dell’espressione «in principio» l’attenzione viene orientata nuovamente verso
la creazione. Giovanni ripetendo che il «Verbo era presso Dio» sembra voler
sottolineare che l’atteggiamento fondamentale del Verbo, il suo essere verso
Dio, dovrà servire da modello rispetto a tutto ciò che nascerà mediante la
«Parola».
v. 3: tutto è stato fatto per mezzo di lui, e
senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste. 
Dopo aver presentato il
Verbo nella sua relazione immediata con Dio, ora lo sguardo è concentrato sulla
relazione del Verbo con il mondo. Già l’AT collegava la creazione del mondo
alla parola di Dio o alla sapienza divina. Tutta l’attività creatrice è opera
del Padre e del Figlio.
L’evangelista afferma che
tutto avviene per mezzo del Verbo, l’evangelista vuole dire anche che tutto
mediante il Verbo prende senso.
Le parole greche “senza di
Lui” possono avere il senso “al di fuori di Lui”. L’idea è analoga a quella
riportata in Gv 15,5: “senza di me potete fare neppure una cosa”. Ciò che in
seguito si dice in riferimento alla salvezza, qui si afferma in relazione alla
stessa esistenza. Attraverso quest’espressione negativa viene rafforzato il
pensiero precedente. Il mondo sia fisico che umano riflette Dio Padre in quanto
è fatto secondo il Figlio di Dio incarnato, che è appunto l’immagine di Dio. In
questo riflesso è racchiusa l’armonia e la bellezza del creato.
v. 4: In lui era la vita e la vita era la luce
degli uomini. 
In questo versetto, il
prologo comincia a descrivere il rapporto tra Lògos e umanità. È importante
collegare questo versetto con quanto detto prima: dopo aver dichiarato la
presenza efficace del Verbo in tutto ciò che è stato fatto, l’opera del Verbo
viene ora caratterizzata dal dono della vita.
Possiamo tradurre questo
versetto così: Ciò che aveva avuto origine in lui (nel Verbo) era vita. La vita
di cui Giovanni parla nel suo vangelo non è semplicemente quella fisica (biòs),
ma una vita qualitativamente superiore e piena («zōē»). In altri passi del
Vangelo viene anche identificata con Gesù stesso.
L’uso del termine “luce”
era uno dei modi consueti per designare nell’ambiente giudaico la Legge di
Mosè. La legge come luce è norma che guida la condotta dell’uomo (cfr. Sal
119,105; Sap 8,4; Nm 6,25). Il detto di Giovanni: “la vita era la luce degli
uomini” inverte la concezione rabbinica, che avrebbe menzionato la frase
all’inverso: la luce (la legge) è la vita dell’uomo.
Il Verbo, entrando in
rapporto con gli uomini, manifesta ciò che egli è per essi, cioè la luce, di
conseguenza, risplende come luce di vita. Grazie al Verbo gli uomini vedono la
luce che li guida alla pienezza della vita. Qui sono anticipate le parole di
Gesù: «Io sono la luce del mondo, chi mi segue non camminerà nelle tenebre, ma
avrà la luce della vita» (Gv 8,12).
v. 5: La luce splende nelle tenebre, ma le tenebre
non l’hanno accolta. 
Tutta la frase è uno sguardo
complessivo sull’opera del Verbo e dei suoi avversari. Giovanni medita sulla
luce che è il Verbo nella sua funzione d’illuminare tutta l’umanità che giace
nelle tenebre.
Con il termine “tenebra”
s’intende prima di tutto il mondo degli uomini lontano da Dio, cioè non ancora
illuminato dalla luce divina. Una traduzione di “tenebra”, in linguaggio
esistenziale, potrebbe essere il disorientamento interiore, cioè quando si è
confusi e non si sa dove e come andare. Tale disorientamento può diventare un
sistema di vita, fino ad arrivare a non sapere più il vero perché delle cose,
lasciandosi così trascinare dagli impulsi e dalle situazioni. Giovanni con
queste poche parole, ci consegna un messaggio fondamentale: il non riconoscere
Gesù fatto uomo fra noi, come senso ultimo della realtà, che dà valore ad ogni
cosa è a tutti gli effetti un essere nelle tenebre, senza alcun punto di
riferimento.
In questo versetto, abbiamo
due poli antitetici: luce-vita e tenebra-morte. L’opera di Dio in Gesù darà
all’uomo la possibilità di uscire dalla tenebra in cui si trova e di passare
alla zona della luce-vita. La luce è l’ambito dell’amore di Dio; e chi vi entra
riceve il dono di questo amore (1,16).
Malgrado i suoi sforzi, la
tenebra non è riuscita a estinguere la luce, che, nel Vangelo di Giovanni si
identifica con Gesù: “Io sono la luce del mondo” (Gv 8,12a); è lui
l’alternativa alla tenebra: “chi segue me non cammina nelle tenebre” (Gv
8,12b).
vv. 6-8: Venne un uomo mandato da Dio e il suo nome
era Giovanni. Egli venne come testimone per rendere testimonianza alla luce,
perché tutti credessero per mezzo di lui. Egli non era la luce, ma doveva
render testimonianza alla luce. 
In questi versetti viene
introdotta la persona del Battista e dice: “ci fu” (letteralmente). Questo non
è l’én usato per la creazione nei vv.
3-4: Giovanni Battista è una creatura. Questa nota sul Battista ci fa scendere
dal mondo soprannaturale e divino all’universo umano (“ci fu un uomo”).
Presentare la figura
storica di Giovanni subito prima dell’attività pubblica di Gesù è usuale nella
predicazione primitiva. Qui si parla di Lui come uno che ha ricevuto una
missione profetica. L’Evangelista fa di questo personaggio il primo grande
“testimone” di Gesù-luce.
La differenza di tonalità
colpisce il lettore ed è possibile che questo passo su Giovanni (come pure il
versetto 15) sia stato introdotto più tardi per dissuadere i discepoli di
Giovanni dal mettere questo grande profeta sullo stesso piano di Gesù. Tra i
due c’è una differenza radicale che separa “colui che era fin dal principio,
rivolto verso Dio” da quest’uomo, che è venuto da parte di Dio per essere
testimone. Il Battista è un testimone della luce, ma non la luce stessa.
Giovanni rende solo testimonianza alla luce davanti alle autorità giudaiche (1,19-34),
davanti al popolo d’Israele (1, 31-34) e davanti ai propri discepoli (1,
35-37). L’ultima volta che Giovanni è menzionato nel vangelo, è quando viene
elogiato per essere stato un testimone fedele: “Tutto ciò che egli disse di
Gesù era vero” (Gv 10,41).
L’evangelista stima così
tanto il Battista che parla di lui come l’intermediario autorizzato fra il
Verbo e l’umanità. Nell’antichità la testimonianza era un gesto con il quale ci
si poneva come difensori e garanti di una causa, totalmente disponibile a
subire le conseguenze di una presa di posizione.
Giovanni Battista deve
testimoniare che colui che Israele attendeva era presente. Giovanni sa che
Costui gli è superiore in dignità (1,27).
Giovanni diventa «figura»
di tutti i testimoni che nel corso della storia hanno ricevuto la missione di
testimoniare nel mondo la presenza della luce divina: la sua figura e il suo
messaggio assumono una portata universale.
v. 9: Veniva nel mondo la luce vera. 
Con questa versetto inizia
un nuovo quadro della storia di Dio e della sua manifestazione, attraverso la
rivelazione del Verbo, nella concretezza dell’incontro fra il Verbo-Luce e gli
uomini.
Abbiamo qui l’aggettivo
“vero” che tornerà spesso nel vangelo: vero pane (6,32), vera bevanda (6,55),
vera vita (15,1). Nell’uso ebraico, “vero”, caratterizza in primo luogo
l’ordine divino (cfr. 7,28; 17,3), che viene contraddistinto dall’illusione e
dalla fallacia dell’ordine dell’uomo peccatore (cfr. Rm 3,4). Così Giovanni
afferma che soltanto nella rivelazione avvenuta in Gesù, attraverso la sua
Parola e il suo operare, viene data a tutti gli uomini l’autentica comprensione
della loro esistenza. Il Verbo è qui qualificato come «luce vera».
La posizione del Verbo è
precisata non solo nei confronti di Giovanni, che era soltanto il testimone
della luce, ma anche nei confronti di tutte le false luci che sarebbero apparse
nel mondo: esse non sono altro che ingannevoli idoli, mentre solo il Dio
vivente è veritiero.
La Parola di Dio «illumina
ogni uomo»: con questa espressione Giovanni si riferisce a ciascuno uomo nella
sua singolarità: il Verbo viene incontro a ciascun uomo nello scorrere del
tempo.
v. 10: Egli era nel mondo…
Il Verbo era nel mondo: una
presenza che è conseguente a quanto detto nel v. 9 (il mondo fu creato mediante
il Verbo). Cos’è questo «Mondo»? («kosmos»): è un termine molto importante; per
tre volte viene ripetuto nei versetti 10-11, ma con sfumature diverse.
Inizialmente Giovanni parla del mondo nel senso di «universo» creato da Dio,
come era nel pensiero dei greci.
Nella citazione successiva
il termine allude non solo all’universo fisico, ma include il «mondo umano». In
questi due riferimenti il mondo è usato in un senso decisamente positivo. Nel
terzo riferimento si parla del mondo umano con un contenuto negativo, in quanto
si allude al mondo sottomesso al potere delle tenebre e ostile alla missione e
all’opera salvifica di Cristo.
In pratica ogni singolo
uomo è posto nella condizione di accettare o meno la luce. L’accoglienza della
luce, mediante la fede, porta la vita divina e la salvezza. Il «mondo» diventa
«peccatore» soltanto dal momento in cui rifiuta la rivelazione di Cristo e non
riconosce la gratuità del dono di Dio.
Non viene data nessuna
giustificazione del rifiuto di questa luce: c’è solo la costatazione del suo
rigetto. L’affermazione del fallimento dell’incontro fra il Verbo e gli uomini
non contraddice ciò che è stato dichiarato precedentemente, cioè che le tenebre
non hanno arrestato la luce: all’evangelista interessa sottolineare il
paradosso del rifiuto che la creatura oppone al suo Creatore.
v. 11: Venne fra la sua gente, ma i suoi non
l’hanno accolto.
 
La TOB traduce: “È venuto
nella sua proprietà, in casa propria…”. Verosimilmente Israele rappresenta
storicamente l’umanità che tutta intera appartiene al Creatore. Il Verbo è
venuto nella “sua proprietà”.
Il termine sottolinea una
relazione speciale fra due individui o fra una persona e un gruppo. Possiamo
richiamare alla mente le allusioni di Gesù circa la relazione che unisce il
pastore alle sue pecore, per indicare il rapporto generato tra Lui stesso e i
suoi discepoli. 
Qui viene riportata una
nota dolente. Giovanni sembra che voglia ricordare il comportamento del popolo
eletto, che si mostra particolarmente infedele.
v. 12: A quanti però l`hanno accolto, ha dato
potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome… 
Diventare figli di Dio
implica una capacità che viene da Dio. È riferito agli uomini che hanno
riconosciuto nel Verbo il principio della loro esistenza e il senso della loro
storia, lasciandosi illuminare da lui. La formula è stata applicata
frequentemente a Gesù Cristo nel NT; è un’espressione tipica dell’AT che si
riferisce a Dio.
Tutti i termini in questo
versetto hanno rilevanza. “Ha dato”: si tratta di un dono del Verbo all’uomo.
“Potere”: il potere che dona a coloro che credono evidentemente non può
trattarsi di una facoltà autonoma, come se il credente divenisse capace di
procurarsi da sé lo stato di figlio di Dio. Possiamo sottolineare la dignità
che comporta il divenire figli di Dio.
Nell’AT l’espressione
“figli di Dio” è usata normalmente al singolare. Da principio viene applicata
esclusivamente al re oppure a Israele, in quanto popolo eletto, per indicare il
legame particolare di protezione e di benevolenza che unisce a Dio chi è
designato come suo «figlio». In questo passo i figli di Dio sono tutti gli
uomini che credono in Dio, Israeliti o no.
In questa frase: “diventare
figli di Dio”, è contenuto un principio che dominerà tutto il Vangelo: Dio non
si sostituisce all’uomo, ma lo abilita a sviluppare la propria attività. Lo
abilita facendo si che nasca di nuovo (1,3; 3,3) per la comunicazione del suo
Spirito (cfr. Gv 3,5ss), dandogli così una qualità di vita che potenzia il suo
essere e gli permette di svilupparlo fino a realizzare in sé il progetto
creatore.
v. 13: i quali non da sangue, né da volere di
carne, né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati. 
L’uomo non diviene figlio
di Dio con la procreazione carnale, come ci ricordano le parole del Battista:
«Dio può suscitare da queste pietre dei figli ad Abramo» (Gv 8,37-39). E non
avviene neppure in forza di un «volere della carne», cioè in forza del
desiderio che ha la creatura mortale di sopravvivere alla morte attraverso la
propria discendenza.
Possiamo pensare che c’è
coincidenza tra l’azione dell’uomo che «accoglie» il Verbo e quella di Dio che
«genera». Queste due azioni formano una cosa sola, nella diversità dei
rispettivi ruoli. È importante tenere presente il passo precedente dove si
diceva che il Verbo illumina ogni uomo. Ora infatti sappiamo che questa
illuminazione, nella misura in cui viene accolta, produce la filiazione divina.
Ora, la figliolanza divina è opera esclusiva di Dio. Attraverso le espressioni
seguenti il ritmo dell’inno si costruisce in un crescendo. Con la triplice
contrapposizione si vuole esaltare la grandiosità del fatto di nascere da Dio.
v. 14: E il Verbo si fece carne e venne ad abitare
in mezzo a noi; e noi vedemmo la sua gloria, gloria come di unigenito dal
Padre, pieno di grazia e di verità. 
La parola “Carne” (in greco
sàrx) definisce l’uomo nella sua condizione di debolezza e di destino mortale.
È intenzionalmente evidenziato il contrasto tra Lògos, nella sua condizione
divina e la sàrx, nella sua
condizione umana. Colui che esisteva da tutta l’eternità è entrato nel tempo e
nella storia umana. Questo è il mistero dell’Incarnazione per cui la Parola
eterna assunse la nostra identica natura umana, divenendo in tutto simile a
noi, fatta eccezione per il peccato (Eb 4,15). Cioè in tutto, escluso ciò che
era incomprensibile con la divinità.
Dice l’Evangelista: “Si
fece” e non “divenne”, perché non avvenne una trasformazione, ma, rimanendo il
Lògos che era, cominciò a vivere nella sua nuova condizione debole e temporale.
Il progetto divino si è realizzato in una esistenza umana; la pienezza della
vita splende in un uomo, è visibile, accessibile, palpabile (cfr. 1Gv 1,1-3).
Per la prima volta si manifesta quale sia la meta della creazione di Dio:
portare l’uomo alla condizione divina.
Per esprimere questo
mistero (“e venne ad abitare”), Giovanni ha deliberatamente scelto l’immagine
biblica della tenda: “Ha posto la sua tenda in mezzo a noi”. Il Lògos si
accampò, piantò la sua tenda. Il vocabolo evoca la tenda (skenè) del deserto
(Es 25, 8-9) costruita perché Dio potesse “abitare in mezzo a loro”.
Il tempio di pietra di Sion
(come si dirà esplicitamente in Gv 2,18-22) è ora sostituito dalla “carne” di
Gesù, cioè dalla sua corporeità e dalla sua esistenza storica che condivide con
noi. La tenda richiama anche il tema della Sapienza che ebbe l’ordine: “Fissa
la tenda in Giacobbe” (Sir 24,8).
La “carne” del Lògos è
indicata come il nuovo tabernacolo, quello della Nuova Alleanza. In Ap 21,35
anche la situazione finale è descritta con espressioni simili: “Dio abiterà (si
accamperà) nella nuova Gerusalemme”. “Abbiamo contemplato la sua gloria, gloria
come di unigenito del Padre…”.
Nell’AT si chiamava “gloria
di JHWH” lo splendore della presenza divina. Appariva in particolare sul
Santuario o Tenda; durante la sua inaugurazione, essa si riempì della gloria di
Dio (cfr. Es 40,34-38; 1Re 8,10ss).
“Pieno di grazia e di
verità”. La frase è una traduzione diretta di Es 34,6, dove Dio proclama come
suoi tali attributi, che servono da base all’Alleanza.
A partire dal v. 14 la
parola “Verbo” sparisce dal Vangelo. Ora che Giovanni ha definitivamente
raggiunto il punto culminante della sua introduzione parlando della Parola
divenuta carne, non la chiama più la Parola ma Gesù: il Vangelo è una
testimonianza non alla Parola eterna ma alla Parola fatta carne, Gesù Cristo,
il Figlio di Dio.
v. 15: Giovanni gli rende testimonianza e grida:
“Ecco l`uomo di cui io dissi: Colui che viene dopo di me mi è passato
avanti, perché era prima di me”. 
Questo versetto riprende la
testimonianza di Giovanni Battista, la cui missione nei confronti della luce è
stata descritta nella prima parte del prologo. Adesso la sua testimonianza
viene proclamata.
Inoltre, si ribadisce il
primato di Cristo che è “prima” di lui, anche se venuto cronologicamente “dopo”
di lui nella storia umana. Si esalta poi la missione del Figlio di Dio presso
l’umanità. Egli offre all’uomo soprattutto “la grazia e la verità”. La
missione della Parola nel mondo fu precisamente quella di porre gli uomini in
grado di divenire figli di Dio, partecipi cioè della vita divina.
v. 16: Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo
ricevuto e grazia su grazia. 
Tutti noi partecipiamo alla
pienezza di grazia, propria dell’Unigenito di Dio. “Noi tutti”: non si vuole
escludere nessuno. Questa è un’affermazione giubilante di tutti quelli che
hanno creduto in Cristo e perciò hanno la capacità di crescere nella loro
realtà di figli di Dio.
“Grazia su grazia”. (Charis
antì charitos): tradotto anche: “Amore in luogo di amore”; questa idea di
sostituzione, come è stata sostenuta dai Padri greci, significa implicitamente
la hesed di una nuova alleanza in
luogo della hesed del Sinai.
Indica un’esperienza
vissuta e cioè la capacità di ricevere dalla sovrabbondanza di Dio
benevolenza-amore. Si vuole sottolineare non tanto un succedersi nel tempo cioè
“grazia dopo grazia” quanto piuttosto un aumento in intensità: si tratterebbe
di un accumulo di grazie, che rivela la continuità dell’azione di Dio nella
storia.
v. 17: Perché la legge fu data per mezzo di Mosè,
la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo.
 
In questo versetto, vengono
messe a confronto l’azione di Mosè e quella di Gesù in ordine alla salvezza.
Anche se l’evangelista non si oppone alla legge, tuttavia sottolinea un certo
contrasto. La legge da una parte e la grazia e la verità dall’altra sono doni
e, poiché il Lògos è da sempre presente nel mondo, tutto ci è venuto da Lui.
La “Legge”, come parte
integrante dell’alleanza, è tutto il complesso di istruzioni che Dio ha
consegnato al suo popolo nell’Antico Testamento. La Legge si capisce come una
benedizione di Dio: una guida per la vita e l’indicazione di una via. La grazia
e la verità vengono abbinate come dono proprio dell’unigenito del Padre, Gesù
Cristo stesso, fondatore della nuova alleanza, rivelazione del Padre.
Mosè e Gesù Cristo sono
posti in parallelo: al dono della legge corrisponde il dono della verità in
Gesù Cristo. Questa verità supera la legge, che è soltanto una sua
manifestazione incompleta. Per Giovanni la Legge è già un dono di Dio, una
grazia che si espande al mondo intero, tuttavia egli sottolinea la profondità
della verità rivelata da Cristo: “in” e “mediante” Gesù Cristo, Figlio unico,
Dio si rivela come Padre.
v. 18: Dio nessuno l’ha mai visto: proprio il
Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato. 
In tutte le esperienze
religiose anche dell’AT, troviamo il desiderio di vedere Dio faccia a faccia,
ma, salvo eccezioni, quest’aspirazione deve attendere il cielo per potersi
realizzare. Giovanni evidenzia che Cristo permette di superare l’impossibilità
di vedere Dio.
Il mediatore di questo
accesso alla gloria è Gesù Cristo, il Figlio Unigenito. “Unigenito” non
soltanto per sottolineare che Gesù è lo stesso Figlio unico di Dio, ma anche
che è lo stesso Verbo incarnato (1,1). Giovanni aggiunge che l’Unigenito è lui
stesso «Dio»: Dio solo può parlare di Dio, in quanto “nel seno del Padre”.
L’espressione sottolinea non solo la tenerezza e l’intimità dell’amore tra il
Padre e il Figlio, ma anche la finalità del rapporto: «il Figlio unico è
rivolto verso il cuore del Padre». Possiamo notare che, come nel v. 14, il
termine Dio viene sostituito da quello di Padre.
Soltanto il Figlio
unigenito, che condivide senza limiti la vita del Padre, può condurre gli
uomini alla conoscenza e alla vita. Con tutto ciò che è, che fa e che dice,
Gesù sarà il rivelatore e l’espressione di Dio e si rivolgerà ai discepoli
dicendo: Il Padre mio e il Padre vostro, il Dio mio e il Dio vostro (20,17).
 
Ci
fermiamo in silenzio per accogliere la Parola nella vita. Lasciamo che anche il
Silenzio sia dono perché l’incontro con la Parola sia largamente ricompensato
 
La
Parola illumina la vita e la interpella

Le mie discussioni
tengono sempre presente ciò che il Signore mi fa conoscere attraverso
il Vangelo e la Sacra scrittura?
Riconosco in Gesù la piena
manifestazione dell’amore del Padre? Lo ringrazio per questo?
Dio ha piantato la sua tenda
in mezzo a noi. Lui vive tra le nostre case. Anche nel mio cuore?
Esco dai miei “nascondigli”
per lasciarmi illuminare dalla Luce del Natale per poter rinascere in Dio e,
diventare figlio nel Figlio, vivere ogni giorno il Natale?
 
Rispondi
a Dio con le sue stesse parole
(Pregare)
Celebra il Signore,
Gerusalemme,
loda il tuo Dio, Sion,
perché ha rinforzato le
sbarre delle tue porte,
in mezzo a te ha benedetto
i tuoi figli.
 
Egli mette pace nei tuoi
confini
e ti sazia con fiore di
frumento.
Manda sulla terra il suo
messaggio:
la sua parola corre veloce.
 
Annuncia a Giacobbe la sua
parola,
i suoi decreti e i suoi
giudizi a Israele.
Così non ha fatto con
nessun’altra nazione,
non ha fatto conoscere loro
i suoi giudizi. (Sal 147).
 
L’incontro
con l’infinito di Dio è impegno concreto nella quotidianità
(Contemplare-agire)
Nel silenzio del cuore
incontra il Signore, ricordando che il Signore ama parlare a bassa voce. Ripeti
spesso e vivi questa Parola: il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo
a noi.
 



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