Lectio divina su Gv 10,27-30
Invocare
O Dio,
fonte della gioia e della pace, che hai affidato al potere regale del tuo
Figlio le sorti degli uomini e dei popoli, sostienici con la forza del tuo
Spirito, e fa’ che nelle vicende del tempo, non ci separiamo mai dal nostro
pastore che ci guida alle sorgenti della vita.
Egli è
Dio, e vive e regna con te, nell’unità dello Spirito Santo per tutti i secoli
dei secoli. Amen.
Leggere
27Le mie pecore ascoltano la mia voce e
io le conosco ed esse mi seguono. 28Io do loro la vita eterna e non
andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano. 29Il
Padre mio, che me le ha date, è più grande di tutti e nessuno può strapparle
dalla mano del Padre. 30Io e il Padre siamo una cosa sola».
Silenzio meditativo ripetendo mentalmente il testo, cercando
di ricordare quanto letto o ascoltato
Capire
La quarta domenica di Pasqua è denominata la «domenica
del buon Pastore» ed è anche la domenica in cui preghiamo insieme a tutta la
Chiesa universale per le vocazioni. Ogni anno la liturgia ci propone diversi
brani del capitolo 10 di Giovanni. Il testo proposto per l’anno C è molto
breve, ma con una ricchezza immensa.
Il buon Pastore di cui parla l’Evangelo odierno è la
persona di Gesù nel suo rapporto con noi: «Io sono il buon pastore. E il buon
pastore offre la vita per le sue pecore». Per meglio comprendere e penetrare il
senso di questa immagine è bene tener presente il brano del profeta Ezechiele
(Ez 34, 3-4) in cui Dio si lamenta dei cattivi pastori che sono alla guida del
suo popolo Israele, i cui rapporti col gregge sono delineati dai seguenti
verbi: nutrire, vestire, ammazzare, pascolare. Questi verbi sono usati tutti in
senso negativo nei confronti dei pastori d’Israele e suscitano l’indignazione
di Dio che, sempre tramite il profeta Ezechiele, promette al suo popolo di
occuparsi personalmente del suo gregge. Il tempo tanto atteso è giunto. Gesù è
venuto, inviato dal Padre, per prendersi cura del gregge che gli è affidato e che
nessuno rapirà dalla sua mano a costo della propria vita.
Nel piccolo brano, che riprende la tematica
“pastorale” trattata nei vv. 1-18, si proclama l´ultima parte della parabola, e
mette in rilievo la relazione che esiste tra le pecorelle e il pastore, Gesù,
che presenta se stesso come il vero pastore. 
Questa relazione è caratterizzata da alcuni verbi:
ascoltare, conoscere, seguire. Attraverso questi verbi è possibile ricostruire
la storia integrale della vocazione cristiana.

Nella seconda parte del capitolo 10 (Gv 10,22-39), da
cui è tratto questo brano, è ambientata a Gerusalemme, sotto il portico di
Salomone, durante la festa della Dedicazione del Tempio.
Questa festa ricordava la nuova consacrazione del
tempio di Gerusalemme, compiuta nel 165 a.C. dopo le profanazioni compiute da
Antioco Epifane (narrate in 1Mac. 1,54-59; 4,36-39). Mentre Gesù stava
passeggiando sotto il portico di Salomone viene raggiunto da un gruppo di
Giudei, ma sarà l’ultimo incontro. Dopo la risurrezione di Lazzaro essi
decideranno di uccidere Gesù (Gv 11,50). In questo ultimo incontro i Giudei
chiedono a Gesù di dire apertamente se egli sia davvero il Cristo. Egli
risponde loro di averlo già detto apertamente e di averlo anche dimostrato con
le proprie opere, ma che loro non essendo sue pecore non gli avevano ancora
creduto.  

Meditare
v. 27: Le mie pecore ascoltano la mia voce.
Gesù ha appena detto ai Giudei
che loro non sono sue pecore. In questo versetto, invece, le descrive dicendo
non chi sono le pecore ma cosa fanno: ascoltano. Nella Bibbia lo stesso verbo shama’ indica sia “ascoltare” che “obbedire”.
Quindi «shema’ Israel» non è soltanto “ascolta, Israele!”, ma anche “aderisci!”.
«Adonài elohénu adonài ehàd» (il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno
solo) è non soltanto una conoscenza di tipo intellettivo, ma è la scoperta di
una relazione (cfr. Dt 6,4ss). È per questo che «lo amerai con tutto il cuore
…». Amerai viene subito dopo ascoltare. Per questo nel Salmo 40,7 si dice
letteralmente: «Tu mi hai forato l’orecchio», come si fa allo schiavo; io sono
il tuo schiavo, ho l’orecchio forato, nel senso che aderisco completamente a
te. Questo dice una adesione totale, incondizionata, fondata anche solo sul
timbro di voce del Cristo. Le pecore sono conosciute perché non è il loro amore
per il Pastore o l’ascolto che loro hanno di lui che fonderà la loro sequela,
ma è la conoscenza che il Pastore ha di loro che fonda la sequela. Questo è il
vivere da cristiani: l’intuire, il recepire la voce del Signore, il lasciarsi
conoscere da lui, il lasciarsi amare da lui, il non sentirsi all’altezza
neanche della Parola: questo dà origine alla sequela.
io
le conosco ed esse mi seguono.
In questa seconda parte del v.
27 riscontriamo una conoscenza reciproca. Nel vangelo di Giovanni, conoscere
indica un rapporto personale, come fra il Padre e il Figlio, fra Gesù e i suoi
discepoli, fra i discepoli e Gesù o Dio. Conoscere abbraccia mente, cuore,
azione, tutto l’uomo, da diventare sulle labbra del Gesù di Giovanni la
definizione della vita eterna: “La vita eterna è conoscere te, unico vero Dio e
colui che hai inviato, Gesù Cristo” (17, 3). L’uomo che ha ascoltato e si è
fatto conoscere ed ha conosciuto Dio “segue” il Cristo come suo unico Pastore.
Gesù conosce le sue pecore,
cioè nutre per esse un amore vivo che giunge al segno supremo, quello del dono
della vita. Il buon Pastore è il proprietario delle pecore; il gregge è suo,
gli appartiene. Gesù è il Signore della chiesa; la comunità dei fedeli gli
appartiene, il popolo di Dio è sua proprietà. In caso di pericolo il buon
Pastore non solo non abbandona le sue pecore per fuggire, ma si dona
completamente al suo popolo fino al sacrificio supremo, fino all’offerta della
propria vita per la salvezza dei suoi discepoli.
La conoscenza nel buon Pastore
indica la carità profonda, l’affetto vitale che coinvolge tutta la persona.
L’amore concreto tra sposo e sposa può fornire un’idea di questa conoscenza
esistenziale. Secondo il linguaggio dei profeti, Jahvè conosce così il suo popolo
che è la sua sposa; per il suo gregge egli nutre una carità tanto viva e
concreta; egli ha conosciuto soltanto Israele facendo sua questa comunità con
un patto nuziale eterno; Dio ha eletto il suo popolo amandolo con un amore di
predilezione.
v. 28: Io do loro la vita eterna e non andranno
perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano.
Questa relazione non potrà aver fine. La parola
eterna/eterno, ripetuta in questo versetto, vuole indicare una gioia che non può
finire, una vita in pienezza anche se ci sarà il nemico pronto a strappare le
pecore dalla mano del Pastore.
Il riferimento al “ladro” che
viene per “perdere”, cioè per distruggere (v.10) e al lupo che “rapisce” (vv.
12-13), ma non potrà prevalere, perché il Pastore è più forte.
Avere vita è il desiderio più
grande di ogni creatura e Gesù la offre abbondante nell’Eucaristia. Una vita
che ha nell’amore la sua sorgente e nell’offerta di sé la piena realizzazione.
Nel quarto vangelo la vita
eterna non è la vita fisica in quanto tale né però, è da concepire come una
immortalità, cioè una vita futura spirituale senza fine. Essa è sinonimo di
vita divina, è partecipazione alla stessa vita del Figlio di Dio, è comunione
con lui, è ingresso nel mistero stesso di Dio.
Gesù ci dà la sua vita
accettando per sé la croce come segno supremo dell’amore che non si risparmia,
ma si dà fino alla fine, fin quando tutto è compiuto. Dare la vita si innesta
nella struttura umana perché, nella partecipazione alla sua Pasqua, anche noi
diventiamo partecipi della vita che è dono di Dio, è eterna come eterno è Dio.
Diventiamo partecipi della vita del Figlio perché anche noi siamo adottati come
figli.
Gesù ci dà la vita Questa è per
noi una sorta di assicurazione: la nostra vita è stata salvata dalla perdizione,
tranne per “il figlio della perdizione” (Gv 17,12). Ora non abbiamo più da
temere di finire male, ora sappiamo che la cifra per leggere ed interpretare le
nostre vicende personali e quelle collettive della famiglia umana è la Pasqua.
v. 29: Il Padre mio, che me le ha date è
più grande di tutti
Qui troviamo il motivo per cui
le pecore non possono essere strappate dalla mano del Pastore: il Padre è più
forte. Come creature noi apparteniamo a Dio; da lui viene la nostra esistenza e
da lui viene quella approvazione della nostra esistenza che sta all’inizio del
mondo. Su ciascuno di noi c’è questa parola di approvazione da parte di Dio, di
un Dio che vuole la nostra vita: proprio perché questa vita ci viene da lui, è
protetta e custodita da lui.
Secondo vari manoscritti,
questa frase si può anche tradurre: “Per ciò che riguarda il Padre mio, ciò che
mi ha dato è più grande di ogni altra cosa” oppure “Il Padre mio è più grande
di tutti, in ciò che mi ha dato”. La prima traduzione mette in risalto la
grandezza di ciò che il Padre ha dato a Gesù e quindi ciò che fa grandi le
pecore è il fatto che il Padre ne abbia fatto dono al Figlio. Nel secondo caso,
la traduzione ci dice che la grandezza del Padre deriva dal donare, dal dono
che lui fa di noi al Figlio.
Nessuno
può strapparle dalla mano del Padre.
  
Sono le parole di speranza, di
scudo che dice Gesù dei suoi fedeli, quelle pecore del gregge che riconoscono
la sua voce (cfr. Gv 6,39).
Le mani di Dio sono le mani del
Padre, ricco di misericordia, che, nella pienezza dell’ Amore, ha inviato il
suo Figlio, fattosi uomo, e a Lui ci ha consegnati, per essere salvati. Ogni
uomo, dunque è nelle mani di Dio, quelle mani che lo hanno fatto e plasmato,
come canta il Salmista (cfr. Sal 118), quelle mani forti e sicure che guidano e
proteggono, quelle mani pronte ad accogliere, anche, i figli che si allontanano
e ritornano pentiti; quelle mani tenere, come quelle di una madre, che
accarezzano e confortano, che, come leggiamo nel libro dell’ Apocalisse,
asciugheranno ogni lacrima, quando, superato il tempo, saremo davanti a Dio.
L’attività pastorale di Gesù è
efficace perché in essa si compie l’amore del Padre stesso per gli uomini, la
sua ferma volontà che tutti gli uomini siano salvi.
v. 30: Io e il Padre siamo una cosa sola.
Gesù ricorda la profonda unità di intenti e di azione
del Padre e del Figlio. Essi sono una cosa sola. Qui Giovanni ci ricorda ancora
la divinità di Gesù che ha cominciato a dichiarare nel Prologo del suo Vangelo.
Qui, ancora meglio, possiamo comprendere l’identità di Gesù Cristo, quale
Figlio unigenito di Dio, e della sua missione come descritta nel quarto
vangelo.
Gesù sente la necessità di
ribadire la sua unità con il Padre. “Io e il Padre” dice una identità diversa
del Cristo rispetto al Padre e quindi l’essere Uno. L’evento dell’essere,
quella parola “siamo” pare sempre più essere lo Spirito Santo. E allora c’è
questa identità pienamente espressa nell’unità. Questo testo richiama la
creazione dell’uomo e della donna: a immagine e somiglianza li creò, maschio e
femmina. Immagine e somiglianza di Dio, per il Cristo, è immagine e somiglianza
del mistero della Trinità. Lo Spirito è l’unità del Figlio con il Padre. È
l’essere Uno del Padre e del Figlio e garantisce l’identità del Padre ed del
Figlio. Questa affermazione scandalizzerà molto i Giudei: nel versetto seguente
è detto che portarono pietre per lapidarlo, senza però riuscirci (cfr. Gv
31-39).
Ci fermiamo in
silenzio per accogliere la Parola nella vita. Lasciamo che anche il Silenzio
sia dono perché l’incontro con la Parola sia largamente ricompensato
La Parola illumina la
vita e la interpella
Sono immerso nell’ascolto di
Dio? Ci sono spazi e momenti nella mia vita quotidiana che dedico in modo
particolare all’ascolto della Parola di Dio?
Dove arriva la mia «conoscenza»
di Gesù Cristo: è ferma ad un livello teorico-astratto o è un continuo
abbandono fiducioso perché trasformi e guidi la mia vita?
Mi sento animato dalla fede in
Cristo Gesù quando incontro difficoltà e ostacoli nel dare ragione della mia
fede? Ispiro al Vangelo le mie scelte di vita?
Mi sento parte del gregge o
rimango fuori per criticarlo?
Pregare Rispondi a Dio con le
sue stesse parole
Acclamate il Signore, voi tutti della
terra,
servite il Signore nella gioia,
presentatevi a lui con esultanza.
Riconoscete che solo il Signore è
Dio:
egli ci ha fatti e noi siamo suoi,
suo popolo e gregge del suo pascolo.
Perché buono è il Signore,
il suo amore è per sempre,
la sua fedeltà di generazione in
generazione. (Sal 99).

Contemplare-agire  L’incontro con l’infinito di Dio è impegno concreto nella quotidianità…
Lasciamo che lo Spirito ci aiuti a discernere la Voce
del Pastore della vita e del’amore vero. Scopriamoci disponibili a seguire Gesù
per essere testimoni di speranza nella quotidianità.

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