Lectio divina su Mt 5,1-12
Invocare
O Dio, che hai promesso ai poveri e agli umili la gioia del tuo regno,
fa’ che la Chiesa non si lasci sedurre dalle potenze del mondo, ma a somiglianza
dei piccoli del Vangelo, segua con fiducia il suo sposo e Signore, per
sperimentare la forza del tuo Spirito. Amen.
Leggere
1 Vedendo le folle, Gesù salì sul monte: si pose a sedere e si
avvicinarono a lui i suoi discepoli. 2 Si mise a parlare e insegnava loro
dicendo:
3 «Beati i poveri in spirito,
perché di essi è il regno dei cieli.
4 Beati quelli che sono nel pianto,
perché saranno consolati.
5 Beati i miti,
perché avranno in eredità la terra.
6 Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia,
perché saranno saziati.
7 Beati i misericordiosi,
perché troveranno misericordia.
8 Beati i puri di cuore,
perché vedranno Dio.
9 Beati gli operatori di pace,
perché saranno chiamati figli di Dio.
10 Beati i perseguitati per la giustizia,
perché di essi è il regno dei cieli.
11 Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo,
diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. 12 Rallegratevi ed
esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli». Così infatti
perseguitarono i profeti che furono prima di voi.
Silenzio
meditativo ripetendo mentalmente il testo cercando di ricordare quanto letto o
ascoltato
Capire
Questa Domenica siamo chiamati a riflettere sulle beatitudini, quasi a
dire che la prima bella notizia che il Signore Gesù ci dona è la felicità. Nei
salmi risuona questa domanda: “C’è un uomo che desidera la vita e vuole giorni
felici?” (Sal 34,13).
Il numero delle beatitudini presentate in Matteo sono 8. Perchè questo
numero?
Nel cristianesimo primitivo era importante perché era il numero, la
cifra che simboleggiava la resurrezione di Cristo. Gesù è risuscitato il primo
giorno dopo la settimana, cioè il giorno ottavo: allora il numero otto nel
cristianesimo primitivo ebbe la figura della resurrezione.
Ecco perché nell’antichità i battisteri, cioè il luogo dove venivano
battezzati, avevano tutti quanti una forma ottagonale, perché il numero 8
indica la vita indistruttibile.
Il vangelo delle Beatitudini costituisce la prima parte del “discorso
della montagna”. Il monte è il luogo della rivelazione, sia per la
trasfigurazione gloriosa di Gesù, sia per la sua parola; il monte ha inoltre un
significato più specifico: esso vuol ricordarci il Sinai, il monte della
promulgazione della legge e della conclusione dell’alleanza.
Matteo propone Gesù come il nuovo Mosè e la sua parola è parola di
vita, è legge nuova (“ma io vi dico”) che non abolisce l’antica ma la porta a
compimento. Tutto il grande Discorso della Montagna traccia la via del
discepolo sulle orme del Regno. Le Beatitudini ne costituiscono il punto di
partenza sorprendente, “scandaloso”, ma anche consolante. Mentre noi
ci chiediamo cosa dobbiamo fare, Gesù ci mostra in primo luogo ciò che fa Dio,
ci invita ad aprire gli occhi, per contemplare il Regno dei cieli in arrivo e
lasciarci sorprendere dalla sua venuta.
Possiamo cogliere ancora una osservazione numerica. L’evangelista
Matteo compone le beatitudini esattamente con 72 parole.
Questo numero ci rimanda a Gen 10, ove vengono indicate le popolazioni
pagane conosciute a quell’epoca e che erano appunto 72 e che stanno ad indicare
tutto l’universo conosciuto, il mondo
pagano.
Cosa vuol dire ciò? Se i comandamenti sono stati indirizzati a Israele
solo, le beatitudini, cioè i nuovi comandamenti, sono indirizzati a tutta
l’umanità, tutti possono accogliere questo messaggio.
Possiamo leggere le beatitudini come impegni che ci sono chiesti, ma
innanzitutto come elementi del ritratto spirituale di Gesù di Nazareth. È una
lettura antica della tradizione cristiana. Origene dice: “Le beatitudini sono
immagine di Gesù, altrettante icone della figura spirituale di Gesù”. Quindi,
se uno vuole capire chi è Gesù può leggere tutto il Vangelo, può guardare il
suo volto a partire da queste prospettive; quello che Gesù è stato, viene
comunicato al credente perché a sua volta lo viva egli stesso. Dio ha preso
l’iniziativa di instaurare il suo Regno: prima di agire, siamo chiamati ad
accoglierlo.
Meditare
vv. 1-2: Vedendo le folle, Gesù
salì sul monte: si pose a sedere e si avvicinarono a lui i suoi discepoli. Si
mise a parlare e insegnava loro.
Abbiamo in questi versetti un popolo rappresentato dalla folla e dai
discepoli che si fanno ascoltatori.
L’accenno alle folle all’inizio (5,1) e al termine (7,28-29) del
discorso fa da cornice all’insegnamento impartito da Gesù a Israele. Ciò vuole
indicare una moltitudine potenziale dei discepoli, ai quali la chiesa è mandata
in missione a portare l’insegnamento di Gesù (cfr Mt 28,19-29). Infatti,
l’insegnamento del discorso non è inteso solo per il ristretto gruppo dei
discepoli, che in ogni caso non sono necessariamente i «dodici apostoli».
Il luogo descritto dall’evangelista è un monte. Nel passo parallelo di
Luca, il racconto delle Beatitudini è collocato su un luogo pianeggiante, è
probabile che Matteo abbia attribuito al termine “monte” un significato non
geografico, ma teologico, volendo richiamare alla mente dei destinatari lo
scenario in cui fu promulgata l’antica Legge: il monte Sinai.
Da questo nuovo monte, da cui scende la Parola divina, Gesù si mostra
a tutti con il suo parlare e insegnare. Il monte delle beatitudini è l’eco e la
pienezza del monte Sinai; è il luogo della rivelazione divina. Pensiamo alla vocazione
di Mose sull’Oreb (Es 3,1ss); alla consegna della Legge sul Sinai (Es 19,1ss); al
sacrificio del Carmelo (1Re 18,20ss); ad Elia sull’Oreb (1Re 19,1ss); alla
trasfigurazione (Mt 17,1-8); all’apparizione del risorto ai discepoli (Mt
28,16).
Su questo monte Gesù si siede:
è la posizione del maestro e la sua parola ha un timbro autorevole e apre la
sua bocca per insegnare.
Il verbo «insegnare» (edidasken)
in Matteo è usato esclusivamente in questo discorso, qui e in 7,29. Il discorso
è sapienziale anche nella formula, che rinvia al Sal 77,2 (cfr At 8,35; 10,34);
è un insegnamento, termine tecnico per indicare che Gesù è l’interprete
autorizzato della Parola di Dio contenuta nelle sacre scritture dell’A.T.
v. 3: Beati i poveri in
spirito, perché di essi è il regno dei cieli.
Gesù inizia col dire “beati” e lo dirà ancora altre 8 volte. Questa
parola che è un invito alla felicità e tradotto dal greco makárioi (che i
vangeli prendono dalla versione dei LXX), ha anche il valore di “benedetti” (cfr.
Mt 25,34), in opposizione ai “guai” (cfr. Mt 23,13-32; Lc 6,24-26), ma indica
qualcosa che non è soltanto un’azione di Dio che rende giusti e salvati nel
giorno del giudizio (cf. Sal 1,1; 41,2), ma che già da ora dà un senso, una
speranza consapevole e gioiosa a chi è destinatario di tale parola.
Questa parola è presa dall’ebraico “‘Ashrè”, che significa soprattutto
un invito ad andare avanti, promessa che è certa e precede quanti vivono una
determinata situazione, parola che indica uno stile da assumere, parola che
cambia l’ottica con la quale si guardano la vita, la realtà, gli altri.
Pensiamo a questa prima beatitudine come atteggiamento fondamentale
per accogliere il Regno. C’è in questo versetto un esempio di come rapportarsi
con Dio.
“Povero” (“ptochos” in greco e “anawim” in ebraico) secondo la Bibbia
è il bisognoso, colui che manca dell’essenziale per vivere e che, quindi, dipende
da altri per la sua sopravvivenza; è l’oppresso, la vittima indifesa in balia
dei potenti. Luca, nel passo parallelo, si limita a nominare “i poveri” (Lc 6,
20), Matteo si preoccupa di aggiungere “in spirito”, proprio perché vuole far
capire che la vera povertà (che può coincidere o no con quella materiale) è il
distacco e la libertà dai beni, il non cercare in essi forme di appoggio o
sicurezza, perché al contrario, come già nel Primo Testamento, ci si affida a
Dio solo. Ce lo fa comprendere meglio la Bibbia interconfessionale: “Beati quelli che sono poveri di fronte a
Dio”
, indicando così coloro che nella vita hanno imparato a contare solo su
Dio.
“I poveri in spirito” sono le persone che davanti a Dio si collocano
come dei mendicanti, dei bisognosi; che sanno di avere bisogno di Lui, di
dipendere interamente da Lui. Possiamo definirlo l’atteggiamento della fede che
non è un fare qualche cosa, ma è la disponibilità a ricevere qualche cosa; è un
mettere come primato della propria vita l’iniziativa di Dio e non le nostre
capacità; non è l’affermazione di noi stessi, nemmeno come affermazione
spirituale, ma è invece la disponibilità a ricevere la grazia e il dono di Dio.
v. 4: Beati quelli che sono nel
pianto, perché saranno consolati
.
Lo sfondo di questo versetto è Is 61,2-3, dove la missione del profeta
è quella di confortare tutti coloro che piangono in Sion. A questi Gesù
promette consolazione (cfr. Lc 2,25), anzi Egli stesso asciugherà le loro
lacrime (cfr. Ap 7,17, che cita Is 25,8; Ap 21,4).
I piangenti, sono anzitutto coloro che soffrono per gli ostacoli posti
dal mondo all’adempimento della volontà divina di salvezza (cfr. Lc 4,16-22; Is
61,1-6); quindi un atteggiamento che l’uomo stesso sceglie davanti alla realtà
della società e del mondo, dove Cristo, Dio, la giustizia di Dio e l’amore che
viene da Cristo fanno la figura dei grandi assenti. Non è possibile per il
discepolo gioire quando ci sono ingiustizie, oppressioni, falsità e ipocrisie e
quando sembra che Dio sia escluso dalla convivenza umana e dai valori che la
costruiscono.
Il Signore, però, è Colui che raccoglie le lacrime (cf. Sal 56,9), non
le dimentica. Egli manda già ora il Consolatore (cf. Gv 15,26; 16,7) a
consolare, affinché ci aiuti ad attraversare la sofferenza e poi alla fine ci
doni la gioia eterna, quando Dio asciugherà lacrime da ogni volto (cf. Is 25,8;
Ap 7,17; 21,4).
v. 5: Beati i miti, perché
avranno in eredità la terra.
Vengono riprese qui le parole del Salmista: «I miti invece
possederanno la terra e godranno di una grande prosperità [pace]» (Sal 37,11).
Il termine ebraico di “miti” è ‘anawìm, un po’ riprende il v. 3. Questi non
sono i timorosi, ma gli stessi poveri di spirito che accettano senza amarezza o
rancore la loro condizione e trovano la forza nella serenità ed in una
coraggiosa sopportazione (cfr. Sal 37,7-9.11.29.40).
Nel linguaggio e nel contesto evangelico, la terra significa la terra
promessa. Però la parola “terra” significa ormai il regno dei cieli,
ovvero il nuovo modo di vivere, secondo lo spirito di Dio, che Gesù annuncia e
inaugura.
La terra, che è sempre di Dio deve essere vissuta come un dono
condiviso e amministrato nella giustizia e nella fraternità, dono di Dio ai
popoli, da abitare senza violenza, in mitezza, in pace e ospitalità reciproca.
Questo è l’unico modo per possederla con sicurezza e frutto, nella pace. Il
violento non possiede davvero la terra, perché la sua minaccia ritorna su di
lui e gli nega la sicurezza.
I miti non solo possono “ereditare” la terra, starvi sicuri
senza far violenza, ma sono i soli in grado di trasmettere a loro volta in
eredità la terra ricevuta.
v. 6: Beati quelli che hanno
fame e sete della giustizia, perché saranno saziati.
La fame e la sete, nella Bibbia (Is 55,1-2; Sal 42,2-3), indicano la
tendenza a Dio e la nostalgia di lui. I due verbi in senso metaforico possono
esprimere un forte desiderio di Dio e della sua Parola: «l’anima mia ha sete di
Dio, del Dio vivente…» (Sal 42,3); «O Dio, tu sei il mio Dio, all’aurora ti
cerco, di te ha sete l’anima mia, a te anela la mia carne, come terra deserta,
arida, senz’acqua» (Sal 63,2); «Ecco verranno giorni -dice il Signore – in cui
manderò la fame nel paese, non fame di pane, né sete di acqua, ma d’ascoltare
la parola del Signore» (Am 8,11 ).
Il Salmista descrive (Sal 107,5.8-9) come Dio abbia soddisfatto la
fame e la sete degli Israeliti. Matteo ha ampliato la fonte Q (Lc 6,21)
aggiungendo la «sete» (in conformità al Salmo 107) e «della giustizia» (per
chiarire la natura della fame e della sete). La giustizia si riferisce in primo
luogo alla giustizia di Dio, ma anche ai rapporti umani e alla condotta. In un
contesto apocalittico la giustizia si riferisce alla rivendicazione dei giusti
nel giudizio finale. Nel Discorso della Montagna fare la giustizia – fare la
volontà del Padre (Mt 7,21) – fare queste mie parole (Mt 7,24), designano la
stessa realtà, cioè l’agire umano necessario per entrare nel Regno dei cieli.
Tale agire deve seguire le norme giuste (fare la giustizia), che sono
determinate da Dio (fare la volontà del Padre) e che vengono autorevolmente
comunicate da Gesù (fare queste mie parole). L’ultimo passo del Discorso della
Montagna in cui si parla di «giustizia» è Mt 6,33: «Cercate prima il Regno di
Dio e la sua giustizia e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta»: si
oppone alla ricerca ansiosa del cibo, della bevanda e del vestito, la
preoccupazione necessaria ed essenziale: il Regno di Dio! Il Regno di Dio
dev’essere il bene più alto, mentre il giusto agire (la giustizia) costituisce
la condizione indispensabile per l’ingresso in quel Regno.
v. 7: Beati i misericordiosi,
perché troveranno misericordia.
Per la Bibbia “misericordioso” è un appellativo tipicamente divino, la
“misericordia” è una caratteristica propria di Dio. I misericordiosi in greco
fa hoi eleèmones cioè coloro che
imitando Dio sanno comprendere e perdonare il prossimo secondo l’impegno
evangelico che ripetiamo con la preghiera del Padre nostro (cfr. Mt
6,11-12.14-15). Lo sfondo è Prov 14,21; 17,5 (LXX), dove la «benedizione» è il
premio per la gentilezza mostrata ai poveri.
Questa “misericordia” attribuita a Dio comprende il perdono delle
mancanze, il perdono dei peccati, che a sua volta desidera – Dio – di vedere la
misericordia praticata dagli uomini.
Dicevano i padri del deserto: Dio obbedisce ai misericordiosi che sono
come lui (cfr. Lc 6,36), hanno lo stesso cuore, sono cioè santi come lui è
santo (cfr. Lv 19,2; 1Pt 1,16).
v. 8: Beati i puri di cuore,
perché vedranno Dio.
Nella Bibbia il cuore non è solo il “luogo” dei sentimenti, ma indica
le decisioni, la vita. Lì ognuno ritrova se stesso e la propria identità, lì
ogni persona decide di sé, nel suo rapporto con gli altri, col mondo e con Dio.
Il cuore buono rende buono tutto l’uomo, il cuore cattivo lo rende cattivo.
L’espressione «cuore puro» non è né un riferimento alla purità
sessuale-rituale né alla sincerità, ma caratterizza le persone oneste la cui
integrità morale si estende al loro essere interiore e le cui azioni sono
coerenti con le intenzioni. Essere puri di cuore significa vedere tutte le
persone e gli eventi con gli occhi di Dio, vederli con “gli occhi del cuore”
(Ef 1,18).
La purezza di cuore è la purezza interiore con cui la persona prende
delle decisioni che sono corrette e non falsate dal suo interesse o dal suo
capriccio o dalla sua superficialità.
Ciò che corrompe e rende impuri, non sono le cose materiali, ma il
peccato; non è ciò che viene a contatto con l’uomo dal di fuori, ma ciò che
dall’interno determina i comportamenti personali di ciascuno. «Tutto ciò che
entra nell’uomo dal di fuori non può contaminarlo», perché gli entra nello
stomaco, non nell’anima. «Ciò che esce dall’uomo, questo contamina l’uomo. Dal
di dentro infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono le intenzioni cattive:
fornicazioni, furti, omicidi, adultèri, cupidigie, malvagità, inganno,
impudicizia, invidia, calunnia, superbia, stoltezza. Tutte queste cose cattive
vengono fuori dal di dentro e contaminano l’uomo» (Mc 7,18.20-22).
Dalla dimensione interiore e spirituale dell’uomo, dalla sua anima e
dal suo cuore derivano i desideri e le azioni buone o cattive. Se sono cattive
corrompono tutto l’uomo: infatti è cattivo all’interno, dove ha pensato e
desiderato il male; ed è cattivo all’esterno, dove si comporta male e fa male
agli altri. Così il cuore, centro della persona, qualifica in senso positivo o
negativo tutta la persona.
v. 9: Beati gli operatori di
pace, perché saranno chiamati figli di Dio.
Insieme con quella dei misericordiosi, questa è l’unica beatitudine
che non dice tanto come bisogna ”essere” (poveri, afflitti, miti, puri di
cuore), quanto cosa si deve “fare”. Il termine in greco significa coloro che
lavorano per la pace, che “fanno pace”. Non tanto, però, nel senso che si
riconciliano con i propri nemici, quanto nel senso che aiutano i nemici a
riconciliarsi. “Si tratta di persone che amano molto la pace, tanto da non
temere di compromettere la propria pace personale intervenendo nei conflitti al
fine di procurare la pace tra quanti sono divisi” (Dupont)
“I portatori di pace” non sono dunque gli amanti del quieto vivere ma
gli attivi operatori di pace, che agiscono come Dio stesso, perché Dio è il Dio
della pace (Rm 16,20). Il vero «operatore di pace» è Dio stesso. Per questo
quelli che si adoperano per la pace sono chiamati «figli di Dio»: perché
somigliano a Lui, Lo imitano e fanno quello che fa Lui. Vuol dire che la pace è
prima di tutto un dono da accogliere! Di conseguenza la pace è un compito! Non
si tratta, tuttavia, di inventare o creare la pace, ma di trasmetterla, di
lasciar passare la pace di Dio «che sorpassa ogni intelligenza» (Fil 4,7),
lasciando che custodisca i cuori e i pensieri in Gesù Cristo.
v. 10: Beati i perseguitati per
la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli.
Partendo dalla seconda, abbiamo visto che le beatitudini son tutte
quante al futuro. La prima del v. 3 è al presente come questa del v. 10. Anche
la seconda parte dei due versetti è identica: “perché di essi è il regno dei
cieli”. Cosa vuol dire?
Gesù lo dice ed è molto chiaro: quelli che sono fedeli a tutto questo
programma, (la giustizia significa colui che è fedele), quelli che sono fedeli
alle beatitudini, non si aspettino l’applauso, non si aspettino il
riconoscimento dalla società né civile, né religiosa, ma si aspettino la
persecuzione.
Infatti, la beatitudine, si riferisce ai perseguitati per il nome di
Gesù, per la causa del Vangelo. Pensiamo alle prime persecuzioni che si sono
scatenate nei riguardi degli apostoli. Queste sono persecuzioni per causa del
Vangelo. L’evangelista, infatti, riprendendo la quarta beatitudine, dà la
motivazione di questa persecuzione «per la giustizia» che il versetto seguente
completerà meglio: “Beati voi quando vi
insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro
di voi per causa mia”
(5,11).
Il verbo “perseguitare” usato qui dall’evangelista, indica la
persecuzione in nome di Dio, la più terribile, perché non viene da nemici
esterni viene proprio da quelli sui quali credevi di contare, quelli avrebbero
dovuto collaborare con te. Gesù dirà nel vangelo di Giovanni: “verrà il momento
in cui chiunque vi uccide crederà di rendere culto a Dio” (Gv 16,2).
Il discepolo di Gesù è chiamato a conoscere con la propria vita
l’ostilità, la calunnia, l’opposizione. Ha detto Gesù: “Guai, quando tutti gli
uomini diranno bene di voi!” (Lc 6,26). Cercare il consenso è una delle
peggiori tentazioni nella chiesa: compiacere tutti per essere da tutti
approvati; sedurre gli altri per ricevere il plauso e avere successo; mancare
di parrhesía cristiana (spesso scambiata,
all’interno della propria comunità o della chiesa, con la libertà, la
sfacciataggine di mormorare!) per essere da tutti apprezzati.
In Mt 10,22 leggiamo: “Sarete odiati da tutti a causa del mio nome”; e
in Mt 10,39: “Chi avrà perduto la sua vita per causa mia, la troverà”.
In questa persecuzione si ritrova ogni discepolo del Regno che è
fedele a questo programma.
vv. 11-12: Beati voi quando vi
insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro
di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra
ricompensa nei cieli.
Così infatti
perseguitarono i profeti che furono prima di voi.
Questa nona beatitudine è la ripetizione dell’ottava e si distacca
dalle precedenti per la sua lunghezza e per l’uso della seconda persona plurale
(«voi»): anch’essa è giunta a Matteo dalla tradizione (cfr. Lc 6,22-23), ma
risale non a Gesù, bensì alla comunità, la quale l’ha coniata a partire dalla
beatitudine da lui riservata agli afflitti.
La beatitudine è rivolta a coloro che esattamente saranno insultati
come Gesù sulla Croce. È rivolta direttamente ai cristiani che soffrono
persecuzione a causa della loro fede in Gesù: ad essi è riservata nei cieli una
grande ricompensa, che si identifica con la piena comunione con Dio (cfr. 1Pt
4,13-16) e la partecipazione alla Resurrezione di Cristo Gesù, il Figlio di
Dio.
Si chiude il v. 12 con l’invito alla gioia, espresso con due verbi
congiunti tra loro: Rallegratevi ed
esultate
. Essi vogliono esprimere una gioia molto intensa. Ogni beatitudine
è una dichiarazione di felicità e dà vera gioia. Se il povero è dichiarato
beato, ciò gli deve procurare gioia. Se invece si rattristasse o sopportasse di
mal animo la sua situazione, non sarebbe per nulla beato. E così si dica di
tutte le altre beatitudini.
Anche l’apostolo Giacomo ricorda ai cristiani che le prove sofferte
per la fede, devono essere motivo di gioia e di esultanza, perché dilatano gli
spazi della speranza e dell’amore: “Considerate perfetta letizia, miei
fratelli, quando subite ogni sorta di prove, sapendo che la prova della vostra
fede produce la pazienza. E la pazienza completi l’opera sua in voi, perché
siate perfetti e integri, senza mancare di nulla” (Gc 1,2-4).
La terza caratteristica di questa beatitudine è il richiamo
dell’esempio dei profeti: Così infatti hanno perseguitato i profeti prima di
voi (Mt 5,12). Il profeta è colui che deve gridare ad alta voce il suo
annuncio, deve esporsi, fare una scelta esplicita per Cristo: ciò gli procurerà
impopolarità, dileggio e persecuzione.
Questo riguarda tutti. I destinatari non sono il clero, i frati o le
suore. Del tutto sbagliato. Perché le beatitudini riguardano la vita normale
del cristiano di ogni tempo e a ogni latitudine.
La Parola illumina la vita
A quale di queste nove beatitudini somiglio di più?
Qual è che mi viene facile? E qual è quella invece che mi invita a
crescere, che mi chiede di provarci, che mi sfida a cambiare?
Pregare
Il Signore rimane fedele per sempre
rende giustizia agli oppressi,
dà il pane agli affamati.
Il Signore libera i prigionieri.
Il Signore ridona la vista ai ciechi,
il Signore rialza chi è caduto,
il Signore ama i giusti,
il Signore protegge i forestieri.
Egli sostiene l’orfano e la vedova,
ma sconvolge le vie dei malvagi.
Il Signore regna per sempre,
il tuo Dio, o Sion, di generazione in generazione. (Sal 145).
Contemplare-agire
Lasciamoci illuminare dalla Parola di Dio e cerchiamo di scoprire
nella nostra vita le beatitudini elencate da Matteo. Cerchiamo di scoprire se
la nostra vita è un dono per amore secondo l’ideale delle Beatitudini.

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