Lectio divina su Lc 15,1-32
Invocare
O Dio, che per la preghiera del tuo
servo Mosè non abbandonasti il popolo ostinato nel rifiuto del tuo amore,
concedi alla tua Chiesa per i meriti del tuo Figlio, che intercede sempre per
noi, di far festa insieme agli angeli anche per un solo peccatore che si
converte.
Egli è Dio e vive e regna con te
nell’unità dello Spirito Santo per tutti i secoli dei secoli. Amen.
Leggere
1 Si avvicinavano a lui tutti i
pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. 2 I farisei e gli scribi mormoravano
dicendo: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro». 3 Ed egli disse loro
questa parabola: 4 «Chi di voi, se ha cento pecore e ne perde una, non lascia
le novantanove nel deserto e va in cerca di quella perduta, finché non la
trova? 5 Quando l’ha trovata, pieno di gioia se la carica sulle spalle, 6 va a
casa, chiama gli amici e i vicini, e dice loro: «Rallegratevi con me, perché ho
trovato la mia pecora, quella che si era perduta». 7 Io vi dico: così vi sarà
gioia nel cielo per un solo peccatore che si converte, più che per novantanove
giusti i quali non hanno bisogno di conversione.
8 Oppure, quale donna, se ha dieci
monete e ne perde una, non accende la lampada e spazza la casa e cerca
accuratamente finché non la trova? 9 E dopo averla trovata, chiama le amiche e
le vicine, e dice: «Rallegratevi con me, perché ho trovato la moneta che avevo
perduto». 10 Così, io vi dico, vi è gioia davanti agli angeli di Dio per un
solo peccatore che si converte».
11 Disse ancora: «Un uomo aveva due
figli. 12 Il più giovane dei due disse al padre: «Padre, dammi la parte di
patrimonio che mi spetta». Ed egli divise tra loro le sue sostanze. 13 Pochi
giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un
paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto. 14 Quando
ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una grande carestia ed egli
cominciò a trovarsi nel bisogno. 15 Allora andò a mettersi al servizio di uno
degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi a pascolare i
porci. 16 Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci;
ma nessuno gli dava nulla. 17 Allora ritornò in sé e disse: «Quanti salariati
di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! 18 Mi alzerò,
andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te;
19 non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi
salariati». 20 Si alzò e tornò da suo padre. Quando era ancora lontano, suo
padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo
baciò. 21 Il figlio gli disse: «Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a
te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio». 22 Ma il padre disse ai
servi: «Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare,
mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi. 23 Prendete il vitello
grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, 24 perché questo mio figlio era
morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato». E cominciarono a
far festa. 25 Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu
vicino a casa, udì la musica e le danze; 26 chiamò uno dei servi e gli domandò
che cosa fosse tutto questo. 27 Quello gli rispose: «Tuo fratello è qui e tuo
padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo».
28 Egli si indignò, e non voleva entrare. Suo padre allora uscì a supplicarlo.
29 Ma egli rispose a suo padre: «Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai
disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far
festa con i miei amici. 30 Ma ora che è tornato questo tuo figlio, il quale ha
divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello
grasso». 31 Gli rispose il padre: «Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che
è mio è tuo; 32 ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo
fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato»».
Silenzio meditativo: Ricordati di me, Signore, nel tuo
amore.
Capire
Il capitolo 15 di Luca è un canto di
gioia che celebra la felicità di chi ha ritrovato ciò che aveva smarrito. Allo
stesso modo, il ritorno alla comunità di un fratello che si «converte» è festa
di tutta la chiesa. E ancor più quale sarà la gioia del Padre per il ritorno di
noi, suoi figli?
Rileviamo anzitutto, che Lc 15
costituisce un’unità letteraria. La sua struttura è semplice. Dopo
l’introduzione (vv. 1-3), le due brevi parabole del pastore che ritrova la sua
pecora (vv. 4-7) e della massaia che ritrova la sua dramma (vv. 8-10) sono
perfettamente simmetriche e inseparabili l’una dall’altra. La terza parabola,
molto più sviluppata (vv. 11-32), illustra l’insegnamento delle parabole
precedenti: è la storia di un padre che ritrova suo figlio; e questa viene
introdotta semplicemente con “Disse poi”.
Inoltre tutto il capitolo è guidato
come da un filo conduttore dai verbi “perdere-perduto”‘,
“ritrovare-ritrovato”; ” rallegrarsi-far festa”. Sono
ripetuti rispettivamente sei/sette volte.
I vv. 7 e 10 con un efficace “Così
vi dico…” dichiarano il messaggio delle due parabole: la gioia del
pastore e della massaia sono pallido simbolo della gioia che “ci sarà in
cielo” (v. 7), “davanti agli angeli di Dio” (v. 10) “per un
solo peccatore che si converte” (id.)».
La nostra pericope evangelica (che
volgarmente conosciamo come la parabola del figlio prodigo), in Luca non assume
il tono di un’esortazione, ma è contenuto dietro un’apologia, una difesa della
misericordia di Dio verso i peccatori.
Questo discorso sulla misericordia è un
valore che possiamo capire solo se siamo sedotti dall’agire di Dio, sedotti dal
comportamento del cuore di Dio.
Con questo brano evangelico, Gesù
definisce i lineamenti autentici di Dio, e cioè la paternità di Dio. Ecco
delineata in questa frase tutta la nostra spiritualità di cristiani, l’essenza
del nostro essere “figli di Dio” (Gv 1,12). Allora inoltriamoci nel
passo evangelico che la chiesa offre oggi per 1a nostra vita ed ascoltiamolo
con “orecchie” e “cuore” nuovo.
Questa parabola ci riguarda. Veramente
riguarda in particolare i farisei e gli scribi che sono dentro la parabola: il
figlio maggiore rappresenta loro, e la parabola rimane aperta. Alla fine non
sappiamo se il figlio maggiore, dopo avere sentito le parole del padre, si sia
convinto e sia entrato o se si sia rifiutato e sia rimasto ostinatamente fuori
senza partecipare alla festa. Sono loro che, sentito il racconto, debbono dire:
un Dio così lo accettiamo o no?
Con questa parabola, attraverso la Parola
del Figlio conosciamo il Padre. E in definitiva è proprio questa la missione
del Figlio, far conoscere il Padre. Questa è la vita eterna: “che conoscano te,
l’unico vero Dio e colui che hai mandato, Gesù Cristo” (Gv 17,3).
Meditare
vv.
1-2: Si avvicinavano a lui tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo
Due atteggiamenti balzano subito alla
nostra attenzione, due modalità di porsi davanti a Gesù. I pubblicani e i
peccatori “ascoltano” la parola di Gesù, manifestando così un
desiderio di salvezza. I farisei e gli scribi, invece, mormorano, svelando
ostinazione e rifiuto. Nei versetti, viene sottolineata la totalità; nessuno
degli esclusi è escluso; «per ascoltarlo» tutti i peccatori sono ammessi come
uditori della gloria di Dio. L’ascolto nel vangelo di Luca è l’atteggiamento
del credente.
Luca colloca questa parabola in un
contesto ben preciso: la critica di scribi e farisei all’atteggiamento che Gesù
assume nei confronti di pubblicani e peccatori. Gli scribi e i farisei non
riescono ad accettare il comportamento di Gesù che mangia e beve con i
peccatori, con peccatori pubblici, che non solo hanno fatto qualche peccato, ma
sono in una condizione permanente di peccato. La condivisione del pasto esprime
una comunione, e siccome Gesù è un maestro e non appartiene alla razza dei
peccatori, questa commistione di sacro e di profano, di giusto e di peccatore
crea problema agli scribi e ai farisei.
Farisei e scribi mormoravano.
Nella Bibbia questo verbo è il verbo
della contestazione di Dio e del rifiuto del suo modo di dare salvezza.
Ricordiamo nell’esodo: “Perché ci hai fatto uscire dall’Egitto?” (Es 17,3);
questo è il verbo che percorre i libri biblici che parlano di Israele nel
deserto e della ribellione a Dio e ai suoi doni. È il verbo con cui l’uomo pretende
di suggerire a Dio come dovrebbe comportarsi con l’uomo e come dovrebbe dargli
la salvezza o il castigo.
Per costoro, farisei e scribi, i
pubblicani e i peccatori sono persone ormai «perdute»: su di loro incombe il
giudizio di Dio, e l’accoglienza calorosa che essi ricevono da Gesù è
inspiegabile e contro ogni logica.
v.
3: Ed egli disse loro questa parabola
L’evangelista introduce dicendo:
“questa parabola”, ma poi ne seguono tre. Non abbiamo altre
introduzioni. Forse Luca si è sbagliato nell’usare il singolare? Possiamo
dedurre che l’Evangelista abbia voluto lasciare una indicazione, perché, sì tre
parabole, ma un unico messaggio, unica parabola.
v.
4: Chi di voi, se ha cento pecore e ne perde una
La scena della parabola è pastorale, ma
contiene una chiave di volta: la vita dell’uomo. Gesù fa un gioco di
proporzioni, di numeri per esprimere il fascino della persona, la domanda di
senso profondo che ha in se. In questo contesto l’ama proprio nel momento in
cui lo smarrimento rischia di gettare nel nulla la sua esistenza.
Non basta una vita per capire la
grandezza dell’uomo davanti a Dio.
Qui gioca il cuore del pastore che pone
il suo sguardo sulla pecora mancante, la sua assenza per lui è un dolore
irreparabile.
lascia le novantanove nel deserto e va
in cerca di quella perduta, finché non la trova
Tutto l’Antico Testamento è permeato da
questo camminare di Dio alla ricerca dell’uomo. Un camminare che ha un nome: la
misericordia.
Al pastore non gli basta la presenza
delle novantanove; decide perdersi lui anziché perderne una. Questa sua scelta
è accompagnata da due verbi: “lascia” e “va dietro” due decisioni
apparentemente contrastanti, ma fortemente legate nella luce dell’amore. E’ il
folle amore di Dio. Le novantanove pecore, in fondo, sono i giusti, esortati a
riconoscersi nella pecora smarrita. Infatti vagano ancora nel deserto. Quelle
pecore, che non si ritengono perdute, staranno nel deserto fino a quando
scopriranno il loro male: la mancanza di misericordia. Allora incontreranno il
medico che non è venuto per i sani ma per i malati.
vv.
5-6: Quando l’ha trovata, pieno di gioia se la carica sulle spalle
Era usanza del pastore, che alla pecora
smarrita spezzasse la gamba, perché imparasse a non smarrirsi. Questo pastore
invece non rompe la gamba, ma se la carica sulle spalle.
L’amore trionfa nel ritrovare l’uomo e
rivela il volto di Dio contemplato nel volto di Gesù, un Dio che di sua
iniziativa, mosso da null’altro che da un folle amore, esce in Gesù dalla sua
distanza per dire ai distanti da lui che egli è semplicemente innamorato di
loro, e che la loro vicinanza lo rende felice.
va a casa, chiama gli amici e i vicini,
e dice loro: «Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora, quella che
si era perduta».
Luca è l’evangelista della gioia ed
invita a gioire. Quest’invito stupisce e stupisce ancor più perché rivolto non
da chi è tornato alla vita, ma da Colui che nel ritrovare ci rivela le ragioni
di questa vita.
Giunge a casa solo l’unica pecora
perduta e ritrovata. Le altre novantanove restano fuori, come il fratello
maggiore nella parabola del figlio prodigo.
Gli amici, i vicini sono i giusti, i
primi chiamati al banchetto, che hanno rifiutato. Sono i farisei e gli scribi
che si distanziano da chi è proteso ad accogliere tutti i peccatori. Ai primi
invitati, che nella loro sufficienza, si sono autoesclusi, il Signore dice:
“apri la tua bocca, la voglio riempire” (Sal 81,11).
v.
7: Io vi dico: così vi sarà gioia nel cielo per un solo peccatore che si
converte, più che per novantanove giusti i quali non hanno bisogno di
conversione.
Il versetto fa il passaggio da perduta
a convertita. In realtà la pecora non si è convertita, è stata semplicemente
ritrovata, proprio perché perduta, ritrovata da colui che ha avuto amore per
essa.
I novantanove giusti sono coloro che
stanno ancora fuggendo da Dio. Chiusi nel proprio io e gonfi di
morte: sono fuori dall’Eden.
v.
8: Oppure, quale donna, se ha dieci monete e ne perde una, non accende la
lampada e spazza la casa e cerca accuratamente finché non la trova?
Qui inizia una seconda parabola: la
moneta perduta. Gesù porta una donna come esempio del suo comportamento.
Una scena banale in una povera casetta palestinese. Una donna perde una delle
dieci monete che conservava con cura, legate alla benda attorno alla fronte e
alla nuca, e costituivano i beni che aveva ricevuto in dote dal padre. Per
cercarla deve accendere la lampada, perché non c’è molta luce nell’unica stanza
senza finestra della sua casa.
Con tre verbi: accendere, spazzare,
cercare viene sottolineato lo sforzo della ricerca. L’uso della scopa si spiega
in una casa con poca luce: 
questo permette il ritrovo della moneta
sentendo il suo tintinnio.
v.
9: E dopo averla trovata, chiama le amiche e le vicine, e dice:
“Rallegratevi con me, perché ho trovato la moneta che avevo perduto”.
La gioia espressa e condivisa è più
coerente qui che non nel racconto precedente. La gioia è condivisione
comunitaria e riflette la dimensione Trinitaria.
Di questa dimensione, ognuno è chiamato
ad essere un raggio dell’unica luce di Cristo riflessa sul volto della Chiesa.
v.
10: Così, io vi dico, vi è gioia davanti agli angeli di Dio per un solo
peccatore che si converte».
La conclusione è simile a quella del v.
7. Manca un confronto con i “giusti”. La gioia è vista come
espressione della salvezza presente e non solo futura come al v. 7.
Cosa significa gioia dinanzi agli angeli di Dio? Due gli orientamenti: la gioia che Dio condivide con la corte
celeste; oppure che gli angeli sono visti come testimoni della Sua gioia.
In conclusione, la parabola è un
messaggio di speranza già pronunciato dal profeta Isaia con queste parole: “Ecco,
ti ho disegnato sulle palme delle mie mani!” (Is 49,16). “Tu sei prezioso ai
miei occhi, e io ti amo!” (Is 43,4).
Ognuno è invitato a capire e vivere
questo grande amore di Dio esteso a tutti, anche a quelli che secondo il nostro
pensiero non sono meritevoli di tale amore.
v.
11: Disse ancora: «Un uomo aveva due figli.
Ecco l’inizio della terza parabola: un
uomo e due figli: uno maggiore e uno minore. Al tempo di Luca, il maggiore
rappresentava le comunità venute dal giudaismo; il minore le comunità venute
dal paganesimo.
In questo versetto tre sono i
personaggi: un uomo con due figli. È la storia di sempre. È Dio, che nel corso
della lettura si rivelerà insieme padre e madre, legge e amore. Il numero due
indica l’inizio di una moltitudine ma i due figli indicano la totalità degli
uomini; peccatori o giusti, per lui siamo sempre e solo figli, per questo ha
compassione di tutti (Sap 11,23) e non guarda i peccati.
v.
12: Il più giovane dei due disse al padre: «Padre, dammi la parte di patrimonio
che mi spetta». Ed egli divise tra loro le sue sostanze.
C’è una giovinezza che manifesta una
certa agitazione, che manifesta un atteggiamento molto frequente anche oggi
perché dice al padre: “dammi la parte del patrimonio che mi spetta”. È il
peccato della pretesa autosufficienza.
Ciò che colpisce in questa prima parte
del testo è il “silenzio” del Padre. Un Padre rispettoso della tua libertà, che
si “annulla” di fronte alla tua scelta e divide le sue sostanze. Dividere le
sostanze é già un atto di misericordia pretendere tanto e per di più con i1
Padre ancora in vita, è un palese atto di ribellione, impensabile per la
cultura orientale. Qui il figlio si dimostra già un “avventato” uno
“scapestrato”. E la legge era molto dura nel reprimere un tale atteggiamento
(cfr. Dt 21,18-21).
Il figlio vuole auto-gestire il grande
dono della vita, ma ora muore perché lontano dalla fonte della vita: il Padre!
Alle porte del caos più totale ha però un bagliore di luce: “Rientrò in se
stesso e disse” (15,17). È la conversione? È il pentimento? Difficile dire,
perché il cammino che si compie verso il Padre non sempre ha un inizio di
chiarezza, di luminosità, ma comporta un chiarimento “strada facendo”.
L’importante è iniziare con umiltà.
Assumersi le nostre debolezze, farne una scala verso il Padre e il Padre ci
sorprenderà.
vv.
13-16: Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose,
partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo
dissoluto. Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una grande
carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. Allora andò a mettersi al
servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi a
pascolare i porci. Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i
porci; ma nessuno gli dava nulla.
Questo figlio, che non sopporta la
presenza del padre va in un paese lontano,
cioè in un “paese pagano”. Lontano vuole dire lontano da suo padre, non avere
più sue notizie. Può fare quello che vuole e l’evangelista descrive questo sua
vita così: in modo dissoluto, fino a trovarsi nel bisogno. E la condizione
di questo ragazzo diventa così grave al punto che è costretto a mettersi al servizio di uno degli abitanti
di quella regione
, e a pascolare i
porci
.
Il porco è un animale immondo, non
viene allevato da ebrei; andare a pascolare i porci deve essere il massimo del
degrado, peggio di così non poteva finire. E la parabola vuole dire questo: il
figlio scende al punto più basso della sua vita: mangiare gli alimenti dei
porci.
Questo vuole dire: da figlio è
diventato servo; l’autonomia che lui cercava non l’ha in realtà conquistata. E
questo è un tema costante della riflessione profetica: quando Israele si illude
di trovare la sua libertà negli idoli, in realtà trova semplicemente la
schiavitù. In Geremia si ricorda l’esperienza di Israele così descritta:
“Poiché già da tempo hai infranto il tuo giogo, hai spezzato i tuoi legami e
hai detto: Io non servirò!” (Ger 2,20a).
Il “giogo”, i legami, sono
evidentemente quelli della legge di Dio, quelli dell’Alleanza, quindi queste
parole sono affermazioni di autonomia: “io non ho legge, io sono legge a me
stesso”. “Infatti sopra ogni colle elevato e sotto ogni albero verde ti sei
prostituita” (Ger 2,22b). La libertà per Israele, l’emancipazione dai legami
della legge, è essenzialmente questo: è la prostituzione della idolatria.
v.
17: Allora ritornò in sé e disse: «Quanti salariati di mio padre hanno pane in
abbondanza e io qui muoio di fame!
Si noti come in questo monologo, Luca
non esprime grandi sentimenti di pentimento; è una conversione a sé, più che al
Padre, intuisce il vero proprio interesse.
“salariati…di mio padre”. Lo
considera e lo chiama padre, anche se non considera sé come figlio. Instaura il
paragone con i salariati. Ha ancora una falsa immagine del Padre. La fame gli
fa capire che s’è sbagliato nel valutare le cose; è l’inizio di un cammino.
Dice un antico proverbio ebraico: «Quando gli israeliti hanno bisogno di
mangiare carrube, è la volta che si convertono».
Il figlio rientra in se stesso cioè
prende coscienza della abiezione in cui è finito, di quanto profondo sia il
peccato, dell’esperienza di degrado nella sua vita. Ha fatto esperienza del
peccato come schiavitù. Chiunque fa il peccato, dice Gesù nel Vangelo di
Giovanni, è schiavo del peccato. Può illudersi di avere raggiunto una libertà
perché non ha più una legge di Dio che orienti i suoi comportamenti, ma in
realtà quel peccato a cui si è consegnato è diventato il suo padrone, è
diventato il suo dio, il suo re; un dio e un re che sono tiranni. A differenza
del Signore.
vv.
18-19: Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il
Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio.
Trattami come uno dei tuoi salariati».
Il figlio minore si è allontanato da
casa perché pensava che suo padre fosse un tiranno; ritorna a casa con la
speranza che suo padre sia un padrone, lo tratti come un padrone tratta i suoi
servi. La conversione del figlio in realtà non è una grande conversione, perché
non ritorna per amore di suo padre, ma ritorna per fame, ritorna con il
desiderio di saziarsi, di potere vivere in un modo meno disagiato di quello
attuale. Non gli dispiace di aver fatto soffrire suo padre.
“non sono più degno di essere chiamato
tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati”. La conversione non è un
percorso facile, anzi è impossibile che l’uomo ritorni a Dio con le sue sole
forze interiori; del resto, senza che noi lo desideriamo, Dio non ci converte a
sé: perciò è indispensabile che il nostro desiderio e il desiderio di Dio si
incontrino; poi l’amore del Padre farà il resto.
Sulla via del ritorno il giovane figlio
aveva preparato mentalmente un discorso, nel quale, con atteggiamento umile, si
riconosceva colpevole; forse anche noi pentiti, sulla via del ritorno a Dio,
abbiamo preparato un discorso ma al Padre le nostre parole non interessano:
come nella parabola, egli ha fretta di far festa, ha fretta di tenerci stretti
nel suo abbraccio e di riconoscersi nel nostro volto, un volto di figlio che ha
i tratti del volto del Padre.
v.
20: Si alzò e tornò da suo padre. Quando era ancora lontano, suo padre lo vide,
ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò.
Se fin d’ora abbiamo parlato del figlio
adesso subentra il padre in una scena travolgente. Il padre qui è ben altro,
non aspetta al varco l’indegno per rinfacciarli una colpa senza scuse, previene
ogni suo atto di pentimento. Per capire, l’evangelista usa per noi dei verbi: i
verbi dell’amore.
“lo vide”. Per quanto lontano il Padre
lo vede sempre; nessuna oscurità e tenebre può sottrarlo alla sua vista (Sal
139,11). L’occhio è l’organo del cuore: gli porta l’oggetto del suo desiderio.
Lo sguardo di Dio verso il peccatore è tenero e benevolo come quello di una
madre verso il figlio malato (cfr. Is 49,14-16; Ger 31,20; Sal 27,10; Os 11,8).
“si commosse”. È il verbo che definisce
la figura del padre. “Commosso” vuole dire: “gli si sono mosse dentro le
viscere”. Letteralmente “fu colpito alle viscere”. L’evangelista Luca
attribuisce a questo padre i sentimenti di una madre, e si collega cosi alla
tradizione biblica, dove Dio ha sovente atteggiamenti materni verso Israele.
In questo verbo abbiamo l’aspetto
materno della paternità di Dio. È la qualità di quel Dio che è misericordia. In
Lc 6,36 Dio ci è presentato come “padre misericordioso”, cioè insieme come
padre e come madre (Luca usa l’aggettivo “oiktìrmon” che traduce l’ebraico
“rahamin”, che indica il ventre, l’utero).
“correndo si gettò al suo collo”. C’è
una corsa del padre che termina in uno slancio che lo fa letteralmente “cadere
addosso” al figlio. Anche Giuseppe, venduto come schiavo dai fratelli, si getta
sul collo di Israele (Gen 46,29). Questo gettarsi al collo interrompe l’idea
del figlio. Il padre è stanco di avere dei servi invece che dei figli. Almeno
il lontano che torna gli sia figlio. Il peccato dell’uomo è di essere schiavo
invece che figlio di Dio. Segno di questo è il “bacio”. Segno del perdono (cfr.
2Sam 14,33). Questi sono gesti che nell’Antico Testamento indicano il perdono e
la riconciliazione il segno che la comunione d’amore che c’era prima, è stata
immediatamente ristabilita.
vv. 21-22: “non sono degno di esser
chiamato tuo figlio…”. È un fardello che si aggiunge al fardello già
esistente nella vita del figlio: essere figlio non è questione di dignità o di
merito; è un dato di fatto. Il padre può essere libero nel mettere al mondo il
figlio, ma nell’essere figlio non c’è libertà; non si sceglie né di nascere né
da chi. Il figlio minore non ha ancora capito che il Padre è amore necessario e
gratuito; pensa non avendola meritata, di rinunciare alla sua paternità.
La conversione non è diventare
“degni” o almeno “migliori” per meritare la grazia di Dio;
la conversione è accettare Dio come un Padre che ama gratuitamente.
“Presto, portate qui il vestito più
bello e fateglielo indossare…”. Il padre prende subito l’iniziativa: non
permette al figlio di terminare la sua confessione; non dice nulla al figlio,
ma l’interruzione nella dichiarazione da parte del figlio, indica che l’aspetto
importante della parabola, non è la conversione più o meno sentita del figlio,
ma piuttosto l’accoglienza e la misericordia del padre.
Il vestito più bello è la veste
migliore, quello riservato agli invitati, che è anche l’abito liturgico della
cerimonia e il vestito dei salvati. È l’immagine e la somiglianza di Dio,
gloria e bellezza originale che riveste l’uomo con la sua dignità con la sua
autorità (l’anello al dito) (cfr. Gen 41,42; Est 3,10; 8,2; Gc 2,2). Che gli
ridona la figliolanza, gli ridona la libertà di figlio (i sandali ai piedi; lo
schiavo non porta sandali).
Questa della gioia di Dio nel perdonare
è il nocciolo più originale del messaggio biblico-cristiano. Altri annunciano
di Dio la potenza, altri la giustizia, altri l’ordine…: noi cristiani
annunciamo che la potenza di Dio è l’amore e la misericordia, che egli sa
vincere il male col bene, che Dio è amore e perdono onnipotenti.
v. 24: “Questo mio figlio era morto ed
è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”. È il canto alla vita del
figlio ritrovato, della relazione nuova, filiale e fraterna. I termini
“morte e vita” lasciano intuire che la sua gioia deriva da una
relazione che si era spezzata prima e ora è reintegrata in un contesto di
libertà. I verbi “perdere e ritrovare” collegano questa parabola alle
altre due precedenti nelle quali si parla della pecora e della dramma perduta e
poi ritrovate. Anche in queste due parabole compare l’ordine di rallegrarsi e
far festa.
vv.
25-30: Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a
casa, udì la musica e le danze; chiamò uno dei servi e gli domandò che cosa
fosse tutto questo. Quello gli rispose: «Tuo fratello è qui e tuo padre ha
fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo».
Chi è il figlio maggiore? Nella Bibbia
il maggiore è Israele, il primogenito di Dio, figura di ogni giusto ma anche
nella vita di tutti i giorni, il figlio maggiore è colui che vive nel giusto o
che crede di essere nel giusto e va in cerca dei ripari: “chiamò… domandò”.
Il giusto non sa nulla della gioia di Dio, anzi gli è sospetta e per questo
indaga minuziosamente, interroga un servo per sapere cosa sta accadendo.
Egli
si indignò, e non voleva entrare.
Il verbo usato per descrivere il figlio
maggiore è si arrabbiò. Il suo
arrabbiarsi è giustificato da un ragionamento che ha una logica stringente, ma
il ragionamento suppone che il padre sia un padrone e che i figli siano dei
salariati, perché questo è il discorso: “io ti servo da tanti anni (…) non ho
mai avuto un capretto”.
Quale rapporto abbiamo con Dio? Quello
del salariato o quello della gratuita, dell’amore? Il figlio maggiore ha
mantenuto sempre quel rapporto del “do ut des” col Padre; cioè un rapporto da
salariato a datore di lavoro, ha sempre ricevuto quello che gli spettava come
stipendio, ma niente di più di quello che va al di là del gratuito.
Il figlio maggiore è il rappresentante
di una religiosità seria e impegnata ma di scambio, la religiosità dove Dio è
datore di lavoro e l’uomo è un operaio, per cui secondo il lavoro che l’operaio
compie ha diritto ad un salario corrispondente. Tutto quello che non entra in
questo sistema di scambio economico e preciso, diventa incomprensibile e “non si
vuole entrare” nell’amore del Padre.
Suo
padre allora uscì a supplicarlo.
C’è un’azione del Padre che è uguale
per tutti: la consolazione. C’è l’azione di Dio che si muove sempre per primo.
Dio consolò Israele mediante i profeti, fino al Battista che “consolava ed
evangelizzava” (Lc 3,18), chiamando alla conversione.
Ma
egli rispose a suo padre: «Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai
disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far
festa con i miei amici. Ma ora che è tornato questo tuo figlio, il quale ha
divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello
grasso».
Paziente, quel Padre che non ha
ascoltato l’umiliazione penitente del secondogenito, ascolta ora le accuse del
primogenito. Il figlio maggiore, nel breve dialogo che ha col padre mostra
tutto il dramma della sua chiusura. Si è fatto un’idea del padre e da questa
non cambia. Non riconosce il padre come suo padre né il figlio di suo padre
come suo fratello. Il figlio elenca i suoi meriti – “ti servo … non ho
trasgredito” – con l’unica preoccupazione di affermare che non ha mai
trasgredito alcun ordine. Non è questo il tipo di rapporto che dobbiamo avere
col Padre nella ricerca egoistica del proprio io o interesse (“un capretto”).
È facile puntare il dito: “il figlio
tuo”. Il primogenito rifiuta di dare il nome di «fratello» al prodigo ma non
gli contesta il nome di «figlio» in rapporto al padre. Di colpo, il padre del
figlio indegno non gli sembra più neppure suo padre; parla di lui come di un
padrone al cui servizio lavora come schiavo: “Ecco, io ti servo da tanti anni”
(come uno schiavo: douléuô. Cfr. v.
29). Se il secondogenito si augurava di divenire, a casa del padre, un servo
ben pagato, il primogenito si considera come uno schiavo verso il quale il
padrone non ha alcun debito di riconoscenza. La comprensione che egli ha del
rapporto padre-figlio non è migliore di quella del fratello.
vv.
31-32: Gli rispose il padre: «Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è
mio è tuo;
In questo versetto, il padre cerca di
far entrare nella logica dell’amore e della festa colui che è rimasto sempre
impigliato nell’orizzonte del puro dovere, della sola osservanza di una
religione rigida che esclude qualsiasi sentimento, gioia e festa e soprattutto
perdono. Lo chiama: Figlio! E gli manifesta la cosa più importante della
religione: “tu hai un padre, tu sei sempre con lui, con questo padre, nel suo
cuore, nelle sue attenzioni. Tu non sei uno schiavo come tu ti definisci, ma un
figlio che gioisce di tutto ciò che ho e che sono come padre. Vieni,
abbracciami, baciami ed entra nella festa del ritrovamento del tuo fratello.
Perché, tu hai un fratello, non sei solo e disperato; come hai un padre, una
casa, un focolare attorno al quale gioire e fare festa”.
ma
bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è
tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato.
Il padre non rinnega il comportamento
tenuto nei confronti del secondogenito e riconferma la sua gioia. La
sollecitazione all’allegria e alla festa con cui si chiude il racconto, rimanda
al finale delle due parabole precedenti in cui si assicura la gioia celeste per
il peccatore convertito (Lc 15, 7.10).
La Parola del Padre ci conduce a
deciderci a morire ai nostri schemi mentali, alla nostra religione fatta di
leggi ed entrare in una religione imperniata sull’amore per cui il padre
accoglie il figlio ribelle e il figlio-schiavo. Senza condizioni, perché sono
suoi figli e basta.
La parabola non rivela la reazione del
figlio maggiore, non dice se è entrato o no a far festa. Volutamente Gesù
lascia le cose in sospeso: ricordando che la parabola è rivolta in primo luogo
a farisei e scribi, è un appello a loro: volete fare come il figlio maggiore,
essere invidiosi dei peccatori che si convertono? Volete o no entrare alla
festa di Dio? Volete continuare a non capire la mentalità, il cuore di Dio? In
definitiva, a Gesù sta a cuore far intravedere ai suoi ascoltatori di ieri e di
oggi, peccatori e presunti giusti, il modo con cui Dio si rapporta alle
persone: ogni uomo, anche se peccatore, rimane per Dio sempre un figlio,
proprio come succede nella parabola.
La parabola possiamo concluderla così:
“Figlio, ritorna anche tu!”. E il vangelo non dice se il figlio
ascoltò la voce del padre: forse questo silenzio è giustificato dal fatto che
la risposta deve essere ancorata in noi e data da noi!
La Parola illumina la vita
Tre sono le realtà perdute in questo
brano: la pecora, la moneta, il figlio. Tu andresti dietro a una di queste?
In me ci sta lo stesso atteggiamento
del Padre?
Vivo una religiosità da schiavi cioè la
religiosità della paura? O vivo la religiosità del salariato, la religiosità
dello scambio?
In quale dei due figli mi ritrovo?
Perché? 
Pregare
Pietà di me, o Dio, nel tuo amore;
nella tua grande misericordia
cancella la mia iniquità.
Lavami tutto dalla mia colpa,
dal mio peccato rendimi puro.
Crea in me, o Dio, un cuore puro,
rinnova in me uno spirito saldo.
Non scacciarmi dalla tua presenza
e non privarmi del tuo santo spirito.
Signore, apri le mie labbra
e la mia bocca proclami la tua lode.
Uno spirito contrito è sacrificio a
Dio;
un cuore contrito e affranto tu, o Dio,
non disprezzi. (Sal 50).
Contemplare-agire
Ripeti spesso e vivi oggi la Parola:
“Mi indicherai il sentiero della vita” (Sal 15,11).


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